Bisogna attendere oltre il giro di boa di metà stagione perchè la vera natura di Gomorra si riveli ai nostri occhi. Prima di quel momento il serial sulla malavita organizzata di base in Campania si "limitava" ad essere un'ottima gangster fiction, realistica e ben girata ma senza la necessaria scintilla che ne facesse un prodotto d'eccellenza, con in più l'aggravante dell'assenza di elementi che impedissero la poco etica immedesimazione dello spettatore con le figure negative di questi criminali, sulla scia dell'empatia scattata qualche anno fa davanti alle gesta di Dandi, Libano e il Freddo, in Romanzo Criminale.
Non è un caso che nei primi episodi una delle poche figure positive della storia, il direttore del carcere in cui è condotto il capofamiglia Savastano, venga offerta allo spettatore all'esatto opposto: come negativa e tirannica rispetto alle condizioni dei detenuti.
E' solo dopo l'ottavo episodio che, in considerazione della pesante collaborazione al progetto di Roberto Saviano, i conti cominciano a tornare. E' da quel momento in poi che lo spettatore perde ogni confortevole certezza che si era costruito e cade nella trappola audacemente confezionata degli sceneggiatori.
E' quello l'interruttore che accende implacabilmente la luce sulla vera natura dei characters, sgretolando ogni empatia o fidelizzazione che si era fin lì attivata. Le sfaccettature dei personaggi sono mostrate in tutte le loro devastanti contraddizioni. Tutti, a partire dal boss Pietro Savastano (un bravo, anche se un pò teatrale Fortunato Cerlino), alla moglie, "Imma" (l'ottima Maria Pia Calzone), passando per Ciro "l'immortale" Di Marzio (Marco D'Amore), tormentato ma ambizioso "soldato" della crew di don Pietro, fino a Gennaro "Genny" Savastano (Salvatore Esposito), passano con naturalezza dal compiere (pochi) atti di profonda generosità a commettere azioni abbiette ed atroci, qualcuna di esse (il brutale omicidio di una ragazza incensurata e la strage nella comunità nera) ripresa pari pari dalla cronaca autentica di questi ultimi anni.
L'attenzione dei media per il cast si è concentrata su Marco D'Amore (Ciro) che, sebbene in un contesto spiccatamente corale, racchiude maggiormente le caratteristiche del protagonista principale, ma a mio avviso le migliori prove attoriali sono fornite da Salvatore Esposito (Genny, il figlio di don Pietro) capace di rendere in maniera straordinaria la metamorfosi del suo personaggio attraverso un encomiabile lavoro sulla postura, sullo sguardo, sulla comunicazione non verbale, sull'imponente fisicità, prima repressa e poi lasciata deflagrare, e dalla "madre" Maria Pia Calzone, grazie alla sua passionale incarnazione di capo capofamiglia femminista.
Nella tenuta complessiva di tutti questi aspetti, che hanno evitato con intelligenza il rischio di una ripresa dei clichè vincenti ma ormai abusati di Romanzo Criminale, Gomorra si dimostra un progetto che ha raggiunto appieno l'obiettivo di coniugare l'azione civile di denuncia con i ritmi e le modalità delle serie poliziesche (strepitoso, da questo punto di vista, il cliffhanger conclusivo). Non devono pertanto sorprendere la sua affermazione, la conferma per una seconda stagione e l'enorme interesse per il prodotto da parte del mercato internazionale che conta.
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