mercoledì 12 ottobre 2011

Protest songs





Ry Cooder

Pull up some dust and sit down (Nonesuch, 2011)





C'è una ragione se nell'immagine del profilo del blog, deputata a rappresentarmi, c'è un tirannosauro che strimpella la chitarra. E la ragione è che in quanto a gusti musicali, nel mio apprezzare artisti e/o generi del passato, mi autodefinisco appunto un dinosauro. Pur consapevole dell'errore di fondo di questa filosofia (la musica va sempre avanti e non bisognerebbe mai fossilizzarsi a quanto fatto ma prestare attenzione alle novità, alle contaminazioni, agli artisti più coraggiosi e intraprendenti e all'innovazione, altrimenti saremmo ancora al ragtime), non riesco a correggere la rotta, soprattutto quando mi trovo davanti dischi che, propugnando stili antichi o marginali, alle mie orecchie suonano comunque moderni e coerenti.


Il vestito della premessa è cucito su misura per Pull up some dust and sit down, nuovo album di Ry Cooder. Il chitarrista californiano, da circa un lustro, e dopo una ventina d'anni di digiuno, ha ripreso a pubblicare dischi a prorio nome con una certa continuità. C'è da dire che nel periodo in cui non uscivano releases, nel suo eterno imsegnare/studiare ha consegnato alla storia tesori inestimabili come A meeting by the river, insieme a Vishma Mohan Bhatt; Talking Timbuktu con Ali Farka Tourè e il Buena Vista Social Club con tutto quello che ha significato per l'isola di Cuba e i suoi ottuogenari interpreti musicali.


I primi picchi di carriera però Ryland Peter Cooder li aveva toccati a metà settanta con lavori come Paradise and Lunch, Chicken skin music e il live Showtime nei quali esibiva una commistione di generi che danzava fuori e dentro il confine USA-Messico, tra tex-mex, folk e rock. Fino ad oggi pensavo che quei lavori fossero insuperabili, ma davanti all'album oggetto di questa recensione sono obbligato a ricredermi.


Pull up some dust and sit down non è esattamente un concept, ma un filo conduttore tra le varie canzoni (meglio dire storie) incluse esiste, ed è molto robusto. Mettendo meglio a fuoco i temi del già ottimo My name is Buddy del 2007 infatti, Cooder si occupa di temi sociali osservati dal punto di vista della gente comune. La crisi economica, la guerra, la povertà, il razzismo nei paesi occidentali, il punto morto in cui si trova la working class americana, così come li descriverebbe un autore che li vive ogni giorno, non uno scrittore della uptown. No banker left behind potrebbe essere la colonna sonora definitiva della crisi mondiale, suggestivo sottofondo alle immagini televisive degli impiegati in giacca e cravatta che uscivano dai grattacieli delle multinazionali con i loro effetti personali stretti al petto all'interno di una scatola di cartone. Musicalmente il pezzo è una festa per le mie orecchie, testo e ritornello sono irresistibili, Ry canta con voce da suonatore di strada e per stile il brano potrebbe far parte del miglior repertorio di Pete Seeger.


Con El corrido de Jesse James comincia il disco nel disco, quello dei pezzi tejano. Come dicevo mai avrei pensato di poter ascoltare brani che all'interno di questo genere uscissero vincenti dal confronto con quelli di quasi quarant'anni fa. Così è invece. El corrido de Jesse James, anche grazie all'apporto del vecchio fella Flaco Jimenez alla fisa e soprattutto di una sezione fiati messicana di dieci elementi, è una composizione che mozza il fiato, tanto è bella. Nel pacchetto di pezzi messicani fanno parte anche Christmas time this year, un tex-mex tanto scatenato nel ritmo quanto accompagnato da liriche drammatiche sulle ferite del corpo e dello spirito di alcuni reduci di guerra, e lo straziante lento Dreaming.


Altre gemme incastonate nel diadema sono la trascinante Quicksand, che se fossimo in un posto che privilegia la musica vera sarebbe un singolo/tormentone, il lento Simple tools e la diabolica I want my crown, che omaggia lo stile canoro caratterizzato da Tom Waits, mentre i gospels Baby joined the army e Lord tell me why possiedono nel DNA tracce evidenti della collaborazione tra il musicista di Los Angeles e Mavis Staples.


Discorso a parte merita John Lee Hooker for President perchè in questo brano avviene una magia: Ry Cooder si trasforma nel bluesman del Mississippi. Anche chi non conosce approfonditamente l'arte di Hooker identificherà dalla prima nota e dalla prima strofa l'inconfondibile stile di questo genio del delta blues, che nel brano racconta in prima persona il suo arrivo a Washington, alla Casa Bianca, l'orgoglioso sfoggio della sua personalità, dei suoi successi, delle sue influenze musicali. Un pezzo strabiliante nel quale è meraviglioso perdersi e che mi fornisce il pretesto per parlare una volta tanto non delle meraviglie della chitarra di Ry ma di come sia diventata versatile e capace la sua voce che nell'album si adatta perfettamente ai diversi stili presenti (che oltre a folk, blues,rock e tejano includono anche, per Humpty Dumpty World, un sorprendente reggae elettrico ).




Fa male al cuore leggere in una recente intervista che l'autore di Paris, Texas, uno dei più rilevanti artisti americani degli ultimi decenni, dichiari di non avere abbastanza risorse economiche per fare un tour fuori dai confini americani con la band al completo o anche semplicemente per arricchire il booklet del cd con la traduzione dei testi. Fa ancora più male registrare che il disco è passato pressochè inosservato non solo nei mercati discografici che contano ma persino nelle chart di genere. Siccome, senza peccare di presunzione, ritengo di poter distinguere tra un disco di roots geniale e uno di maniera, sono arrivato alla conclusione che il problema non sia tanto la marginalità del genere quanto la posizione politica dei testi. Esprimere concetti di eguaglianza, di denuncia nei confronti dell'establishment, dei media e delle corporazioni, orientarsi su posizioni socialiste non fa bene alle vendite negli USA, nemmeno nel ventunesimo secolo. Nemmeno se i potenziali acquirenti stanno in fila per il sussidio di disoccupazione.


Non mi sorprenderebbe però se tra qualche anno canzoni come No bankers left behind venissero usate come slogan dai manifestanti, cantate in faccia alla polizia davanti agli uffici di Wall Street, in un filo rosso che collega questo autore, questa canzone, quest'opera a Pete Seeger, Woodie Guthrie e Leadbelly e alle loro We shall overcome, This land is your land e Midnight special, le protest songs che, volente o nolente, fanno parte del patrimonio musicale americano.









P.S. In merito alle tematiche dell'album segnalo la dettagliata scheda di presentazione di wikipedia


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