lunedì 7 marzo 2011

Hey ho, here we go KMAG YOYO!


Hayes Carll

Kmag Yoyo (and others american stories)

Lost Higway, 2011




Capita a volta di eccedere nel giudizio sull’opera di un musicista. Succede perchè quel determinato artista, a te, e magari solo a te, regala emozioni intense: pur arrivando da mondi, culture ed esperienze lontane, ti collega a lui un’incredibile empatia. E' il caso, si capisce, del rapporto che da subito ho stabilito con Hayes Carll.


La “nostra” storia è iniziata con un'articolo che parlava dell'ottima label americana Lost Higway e degli artisti che ha sotto contratto (tra gli altri Elvis Costello, Lucinda Williams, Van Morrison, Ryan Adams, Johnny Cash), con particolare riferimento ai due nomi che in prospettiva promettevano meglio per ciò che concerne la tradizione musicale americana : Ryan Bingham e Hayes Carll. Bingham già lo conoscevo, toccava testare Carll. Trouble in mind, il disco del 2008 fu una folgorazione, poterlo vedere dal vivo e anche conoscerlo in un contesto atipico, intimo e familiare una favolosa botta di culo.


A tre anni di distanza ecco il successore, dal titolo, quasi impronunciabile,di Kmag Yoyo. Il significato dell’ acronimo, di quelli tipici da esercito coniati per descrivere ogni tipo di situazione o procedura, indica una delle casistiche operative meno auspicabili, quella in cui il militare se la deve sbrogliare da solo: Kiss My Ass Guy You're On Your Own.


Non ci sono grosse novità dal punto di vista stilistico, forse giusto una dose maggiore di chitarre elettriche e di suono full band, ma il ragazzo (che è per i locali di Houston, chitarra in spalla, da quando aveva vent’anni) ha ulteriormente affinato la prosa, appuntito la matita, aperto l’obiettivo della camera. I testi abbracciano i temi della società americana (i proiettili fischiano nelle strade delle cittadine USA e anche da quelle parti non si arriva a fine mese, è questo che ci dice in Stomp and Holler) le sue contraddizioni, i suoi luoghi comuni, le sue inverosimili bugie ("I overheard Afghanistan is safer than a minivan", canta Hayes in Another like you). In mezzo a tutto questo ci si mette anche tua madre che ti chiede "ma perchè non fai dell'easy listening?!?" (Hard out here). C’è il rock, ci sono le atmosfere folk-swing da Blonde on blonde di Dylan, c’è il pure country, come nella struggente e scarna ballata Chances are. Ora intendiamoci. Anche il country, come il blues, è sofferenza, tormento, vesciche ai piedi e amori travagliati. Non è certo colpa di Hank Williams se oggi il country che va per la maggiore è tutt'altro. All'epoca questo genere e le sue ramificazioni appartenevano a chi lavorava duro nei campi, agli hillbillies, a gente che non aveva niente e nemmeno la prospettiva di arrivare un giorno ad avercelo, qualcosa. E allora Chances are è sì una canzone d'amore, ma di quelle dolorose, destinate ai cuori spezzati che non ne vogliono sapere di smettere di sanguinare. Poi c’è la title-track. Che dire? Dieci anni di guerre americane in medio oriente in quattro minuti di driving rock, ironia e rabbia come uniche armi di sopravvivenza, altro che weapon of mass destruction. Il diciassettenne soldato americano se ne sta, pistola alla mano, in mezzo al deserto di qualche posto sperduto, pensa al padre che l'ha arruolato a diciassette anni perchè lui aveva fatto lo stesso con l'air-force: alla ricerca di pericolo, soldi e amore, aveva trovato solo il divorzio. Dunque il ragazzo se ne sta lì, immobile e terrorizzato a morte anche al solo pensiero di muovere un passo o scappare via e pensa, fanculo, se devo morire quì allora è meglio tirare su un pò di grana con l'eroina. E’ l’inizio di un viaggio tipo Cuore di tenebra, una spirale verso il basso presa però a duecento all’ora.


Another like you è un piccolo gioiello di inestimabile valore. Una sceneggiatura buona per una scena di film di Allen racchiusa in una manciata di minuti. Il pezzo è eseguito in duetto con Cary Ann Hearst. Nello stile riprende i grandi duetti (country, ma non solo) di Johnny e Rosanne Cash, Loretta Lynn o Dolly Parton con decine di diversi partners maschili. Nel romanticismo da strada rimanda al corteggiamento di I never talk to strangers di Tom Waits con Bette Midler, mentre nella corrosiva irriverenza di alcuni passaggi non può che emergere la sfrontatezza di Shane MacGowan e Kirsty MacColl in Fairytale of New York. Le citazioni del testo sarebbero troppe da elencare, in pratica ogni frase è una stoccata micidiale alla politica, alla società, ai due protagonisti dell’incontro.

Siamo a metà disco e c’è già tantissima roba, il texano ha urgenza comunicativa e non ha paura di usarla. Io invece volevo contenere le battute di questo pezzo ma mi sa che non ci riesco. Cribbio, non posso non indugiare almeno su una ballata acustica come Bye bye baby, sulla vita da hobo cantata dentro Bottle in my hand (ospiti Todd Snider e Corb Lund), un blugrass fatto come lo farebbe Steve Earle. E poi guardate, io davvero non so come si possa ascoltare Grateful for Christmas senza commuoversi profondamente. Giuro, per me è impossibile. Con una semplicità disarmante Hayes sfoglia il libro di fotografie delle feste di Natale in famiglia, scorrendo con le dita le foto, prima quelle in bianco e nero di quando era ragazzino, fino ad arrivare a quelle fatte con la digitale dei giorni nostri. Indugia sui particolari, sui parenti che affollano la casa. La testa si riempie di ricordi, gli occhi di lacrime. La chiusura è per Hide me, un’altra ballata (curiosamente le prime due strofe sono identiche alle prime due di Hard out here) ,questa volta puntellata delicatamente da un coro gospel.


Personalmente non ho dubbi. Hayes Carll, per quanto riguarda la tradizione classica americana (si potrebbe parlare di roots), è uno dei migliori songwriter su piazza. Altro che solo un ubriaco con una penna, come si schernisce lui. Il texano sa dosare dolcezza e ironia, scattare fotografie a dodicimila pixels sulla realtà americana, commuovere e divertire. In un modo che nei suoi momenti migliori ricorda il Bob Dylan più corrosivo e ispirato. A sto giro sarebbe bello se venisse in tour con la band al completo (l’ultima volta si esibiva con il solo Scott Davis alla seconda chitarra), ma sarà difficile visti i costi che questo comporterebbe.


Lo so mi sono dilungato, ma come si dice, al cuor non si comanda.

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