E' arrivato al terzo album il combo del New Jersey cresciuto a pane e classic rock, e stavolta possiamo davvero cominciare a parlare di svolta decisiva per le sorti della band.
Nella mia recensione al loro set nell'ambito del Rock in Idro dell'anno scorso, parlavo in termini lusinghieri dell'impatto live del gruppo, auspicando però una crescita a livello compositivo, dato che, come su disco, mi sembrava che mancasse una valvola di sfogo (un refrain poderoso, un'apertura di gas) alla notevole tensione emotiva creata dai quattro.
Bene, direi che con America Slang la mia esortazione è stata accolta. Il nuovo lavoro contiene infatti almeno 5-6 pezzi potenti, autorevoli (la title-track su tutti) che riescono però anche ad essere non onanistici grazie ad un approccio più semplice e diretto della loro struttura.
Altra novità rilevante del terzo capitolo discografico dei G.A. è rappresentata dal mood di un brano come The diamond church street choir, che ha fatto impazzire di gioia i fan di Springsteen per la sua assonanza con lo stile che il (non ancora)boss alternava al folk nei suoi dischi del 1973 (The wild, the innocent and the e street shuffle e Greetings from Asbury Park, N.J.) in canzoni come ad esempio Kitty's back, nelle quali si sforzava di trovare un pathos alla Van Morrison. Si tratti di sincero omaggio o calcolata furbata non è dato saperlo, la cosa migliore da fare è lasciarsi andare e godersi il brano, che è indubbiamente di ottima fattura.
Lo stile classico di Bruce: la sua intonazione vocale, il tipico drumming di Weinberg della E Street, e suoi caratteristici backing vocals rieccheggiano anche in altri brani (Bring it on, The spirit of Jazz, The queen of lower chelsea), ma nonostante ciò, emerge ugualmente lo sforzo dei ragazzi di affermare un proprio stile, una propria autonomia, di imprimere a fuoco un loro marchio, che è quello della ricerca dell'epicità dentro tematiche di romanticismo da strada, degli improvvisi cambi di tempo, degli stop and go, della furia che si placa, con le chitarre che lasciano spazio a delicate armonie vocali.
Nessuna invenzione assoluta, è chiaro, ma tanta umiltà e passione che fanno apprezzare gli sforzi di emergere della band. Il difetto di American slang può essere semmai identificato nell'eccessiva produzione di alcuni brani, che partono bene, in uno stile chitarristico a volte punk-rock, ma che poi vengono malauguratamente soffocati da arrangiamenti rindondanti, quasi eighties (Stay Lucky su tutte). Niente di male, c'è il tempo di crescere e sistemare le cose, tanto poi dal vivo è tutto più chiaro, e i libri di scuola sui quali i ragazzi si sono fatti le ossa (Pearl Jam, Who, Bruce, Clash, forse persino Social Distortion) risultano evidenti a tutti.
E' curioso invece che sulla band ci siano da parte di pubblico e critica pareri totalmente contrastanti. Non parlo solo di chi si esprime favorevolmente e chi no nei riguardi del valore della proposta musicale, ma anche su chi ritiene che American Slang sia un passo indietro rispetto ad The 59 sound e chi invece, come il sottoscritto, pensi che quest'ultimo disco sia un evoluzione dello stile dei quattro del N.J.
L'importante è che se ne parli, sostengono quelli bravi in comunicazione. Ecco, alla fine dei Gaslight Anthem se ne sta parlando davvero moltissimo. E sono convinto che si continuerà a farlo.
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