Robert Plant & Alison Krauss
Raisin sand
La vera sorpresa dell’anno. Un disco prodotto magnificamente (non potevano esserci dubbi, in realtà) da T-Bone Burnette. Non c’è il folk della Krauss, né l’hard rock di Plant, ma un sound che fonde e inventa un genere più vicino a Tom Waits che alla sommatoria dei due artisti.
Steve Earle
Washington Square serenade
Un buon ritorno per Steve, il cambiamento epocale nella sua vita (il trasferimento dal Tennesse a New York) si riflette nel disco in maniera contraddittoria. A fronte di una manciata di canzoni magnifiche, si registra un appannamento della vena politica più angry. Un peccato veniale, il ragazzo è innamorato, e si sa, l’amore appanna la creatività.
Ryan Adams
Easy Tiger
Il ragazzo prodigio dell’americana è tornato a conciliare la sua vena creativa con una certa dose di commercialità, trovando il giusto equilibrio, come non gli capitava da Gold. Il ragazzo prodigio ha trovato anche la misura, riuscendo a restare sotto i quaranta minuti e mantenendo così alta la concentrazione dell’ascoltatore.
Xavier Rudd
White moth
Mi avevano segnalato questo artista anni fa, ma l’avevo trovato un pò troppo clone dell’originale (Ben-voi-sapete-chi). In questo disco avviene una notevole emancipazione dal modello di base, oltre ad un suo appannamento creativo irreversibile. Si naviga a vista tra folk d’autore, reggae e musica etnica senza mai perdere la bussola.
Ry Cooder
My name is Buddy
Disco politico dell’anno. Ry Cooder torna con un disco di musica folk-blues, e lo accompagna di testi a forte demarcazione sociale (socialista?) attraverso la metafora di Buddy, gatto rosso licenziato dalla fabbrica che insieme agli altri lavoratori cerca di ricreare uno spirito collettivo di solidarietà che il movimento ha da tempo perso. Musica e liriche impedibili.
Degni di nota anche:
Devendra Banhart - Smokey Rolls Down Thunder Canyon, affascinante, ma che ho scoperto solo qualche giorno fa, e ha bisogno di sedimentare.
Mavis Staples – We’ll never turn back, anche qui lo zampino come produttore di Ry Cooder. Una raccolta di canzoni di lotta dei neri americani, con qualche chicca (la conclusiva Jesus on the mainline). Se riuscite ad ascoltare We shall not be move, sapendo cosa rappresenta, senza commuovervi, siete dei fottuti cyborg.
The Dillinger Escare Plan – Ire works, un grande gruppo deve partire da una grande ragione sociale, e qui ci siamo. La musica poi. Beh, se si ha la costanza di superare il per me indigesto growling, si arriva a sonorità eterogenee, strizzatine d’occhio ai RHCP e hard pop.
John Mellencamp – Freedom’s road, il tempo passa e John è lì, eterno ragazzino col ciuffo a fare le sue canzoni adolescenziali sulla libertà. Non solo quelle, per fortuna. Freedom’s road si può definire come il fratellastro di Lonesome Jubilee, che arriva quasi vent’anni dopo.