martedì 16 luglio 2024

Stevie Van Zandt, Memoir - La mia odissea, tra rock e passioni non corrisposte

 


Se pensiamo alla figura di un comprimario del grande circo del rock che sia "fedele nei secoli" al mitologico frontman, probabilmente il primo nome che ci balenerebbe in mente è quello del chitarrista del New Jersey nato Steven Lento, e poi, nel tempo, diventato Stevie Van Zandt, alias Miami Stevie, alias Little Steven. Il suo ghigno malizioso con il labbro inferiore sporgente, gli occhi insinuanti e la costante bandana colorata, nell'immaginario collettivo sembra trovi posto solo accanto a Bruce Springsteen, sui palchi di tutto il mondo. Giusto?

Sbagliato. Innanzitutto perchè la storia ci racconta di una lunga separazione tra i due, i quasi vent'anni trascorsi dal tour di The River (1980/81) alla reunion della E Street Band (1999), e, soprattutto, perchè Little Steven, in quel periodo ha fatto di tutto eccetto starsene con le mani in mano. 

Personalmente non mi serviva un'autobiografia per scoprire che Stevie ha sempre avuto molto da dire in campo musicale. Questo perchè ho seguito assiduamente le sue produzioni e i suoi concerti (memorabile quello al Rolling Stone di Milano, nel 1987) per tutti gli anni ottanta. Conoscevo anche, ed era una delle ragioni in più per cui lo apprezzavo, il suo forte impegno politico anti establishment repubblicano, contro l'imperialismo americano che si è manifestato per lungo tempo attraverso golpe telecomandati e brutalità delle multinazionali in America Latina, l'avversità alla presidenza Reagan, le iniziative a favore dei nativi americani. 
Se a ciò aggiungiamo i Soprano, già così ci sarebbe stato sufficiente materiale per scrivere due libri. In realtà dentro questa autobiografia c'è molto, molto di più, al punto che mi ha folgorato al pari delle migliori tre quattro lette nella mia vita. E ti assicuro che, essendo una mia peculiare passione, ne ho lette a pacchi.

Sì, perchè Stevie racconta di una vita con poco sesso e droga, parecchio rock and roll ma, soprattutto, un'infinita voglia di esplorare, intraprendere, incidere sulle cose, cambiarle, raddrizzare ingiustizie, che siano l'esclusione di un misconosciuto gruppo anni sessanta dalla notorietà fino all'apartheid. 

Proprio l'ambito di quell'abominio razziale del Sudafrica rappresenta forse la parte più avventurosa (per l'incolumità del nostro) ed avvincente del libro. Col senno di poi, quel fantastico progetto sfociato nel supergruppo Arists United Against Apartheid fu l'unico, nell'imperante moda delle canzoni benefiche (ricordate Do they know it's christmas e We are the world?), a raggiungere un obiettivo concreto, oltre che di emersione del problema. 

Per la canzone manifesto Sun City, testardamente e contro tutti, Stevie contaminò artisti diversissimi tra loro, raggruppando Miles Davis e Bono, Bruce e i Run DMC, Bob Dylan e George Clinton, Herbie Hankock, Joey Ramone, Peter Gabriel, Lou Reed e tanti, tanti altri. Il brano provocò un movimento d'opinione che si abbattè anche contro lo stesso music business (fino a quel momento più di un artista, ad esempio Sinatra e i Queen, andava serenamente a suonare a Sun City fregandosene della condizione della popolazione nera), contribuendo fortemente a fare opinione fino alla caduta del regime e alla liberazione di Mandela (a proposito del quale Stevie riporta giudizi al vetriolo su Paul Simon - peraltro detestato dai gruppi politici sudafricani che si opponevano alla dittatura afrikaner - , che riteneva il leader africano un pericoloso comunista e Whitney Houston, che in un concerto di tributo per la liberazione di Mandela non volle nessun riferimento politico alla sua esibizione. Entrambi passarono poi per paladini della liberazione del Paese africano, ma vabeh).

C'è poi il suo impegno nel veicolare e tributare il giusto riconoscimento a quello che ritiene essere il periodo di "rinascimento" della musica, i cinquanta e i sessanta, le trasmissioni radiofoniche e televisive a tema rock/pop di qualità, la sua etichetta discografica (la Wicked Cool Records, ancora in attività), il ritorno negli anni dieci in sala di registrazione e in tour, il recupero di artisti dimenticati, insomma, le mille imprese quasi sempre rischiate di tasca propria che l'hanno ridotto in costante perdita finanziaria, col suo ultimo obiettivo dichiarato, ironico ma fino a un certo punto, di andare almeno in pari prima di morire.  
Una condizione che Steve riassume così: "La maggior parte dei progetti che ho fatto non si sono mai avverati e la maggior parte di ciò che ho realizzato è rimasto praticamente invisibile (...)". 

E volendo, non è finita qui, c'è il rapporto fraterno con Springsteen, le produzioni televisive (I Soprano, Lilyhammer), le turnè nell'amata Europa, il suo ruolo di consulente e mediatore ad ampio spettro (cinema, televisione, musica). 

Una vera sorpresa insomma, questo Memoir, consigliata a musicofili, cinefili, appassionati di politica e curiosi della vita tout court.

2 commenti:

  1. Solo tu puoi leggere l'autobiografia di Little Steven! E comunque, tanto per fare il secchione, della separazione di LS da Bruce si capiva già da Born in the Usa, dove (almeno nel mio vinile) Bruce gli augura "buon viaggio".

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  2. Eh sì, infatti nel tour seguente a BITUSA Stevie già non c'era più. In merito al libro, Bruce c'è ovviamente, ma è la storia di quest'uomo ad essere incredibile. Questa autobio si mangia in un boccone quella del Boss, è più politica, più avventurosa, più avvincente, non c'è proprio partita.
    (monty)

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