Stati Uniti, futuro ipotetico. Impazza la guerra civile, le città sono allo stremo, la violenza dilaga, molti territori sono in mano a milizie auto-organizzate e Washington è sotto attacco. Seguiamo un gruppo di giornalisti e fotografi che decidono di raggiungere una Casa Bianca sotto assedio per un'intervista impossibile al Presidente.
Civil war non è il film che ti aspetti se pensi alle minchiate distopico apocalittiche in cui esplode tutto, caratteristiche di certo cinema hollywoodiano che una volta liquidavamo in una parola: americanata. Civil war non è il film che si aspettavano i fruitori ma-solo-se-danno-il-blockbuster della sala, che, infatti, una volta capita l'antifona (il passaparola tra loro simili) hanno disertato i cinema. No, Civil war non è decisamente il film che ti aspettavi, soprattutto non conoscendo il regista dietro al progetto, quell'Alex Garland che poco tempo fa aveva girato Men, un altro film inaspettato, folle, disturbante e metafisico, a causa del quale le persone scappavano letteralmente dalla sala e che io, giuro, non per snobismo, ho messo tra i miei preferiti del 2022.
Peraltro, da antitrumpista convinto, devo ammettere di essermi fatto l'idea che Civil war non sia nemmeno quell'attacco diretto al pericoloso complessato (pseudo) miliardario candidato alla presidenza anticipato dai più, ci sono diversi indizi nella sceneggiatura che mi hanno portato a questa conclusione, a partire dalla decisione, che condivido, di non dare troppo spazio alle ragioni per cui alcuni Stati degli USA si sono rivoltati contro il potere centrale (tra l'altro due stati politicamente e sociologicamente agli antipodi come Texas e California), dando il via ad una rivolta che poi si è allargata, e quindi agli errori del presidente che in ogni caso si vede per poche sequenze solo nel prologo e nella conclusione del film.
Il battleground è dunque l'America, ma io, forse a causa di un'età che mi ha portato a vivere con angoscia e in tempo reale la guerra civile dei Balcani, vedendo scorrere le immagini di violenza gratuita, ingiustificata, ottusa e brutale, non ho potuto che fare una connessione immediata con quanto accaduto nell'ex Jugoslavia negli anni novanta. Certo, di molto molto americano c'è il cittadino medio con l'arsenale in casa, una condizione che lo porta ad essere più che pronto, quasi in trepidante attesa del primo conflitto possibile, un contesto che non ha pari in nessun altro Paese occidentale.
Tuttavia, le torture inflitte dallo stupido hillbilly ad un altro americano come lui solo perchè gli è sempre stato sul cazzo ("al liceo manco mi salutava") o la sequenza più agghiacciante del film (affidata ovviamente a Jesse Plemons, chi altro?) in cui, di nuovo, il cittadino medio assume un potere di vita e di morte cui non è antropologicamente destinato, mi rimanda non ai rischi di una guerra intestina sul suolo americano, ma alle tante realmente avvenute nel passato, su terre a noi vicine (l'ex Jugoslavia, appunto) e lontane (l'Africa, il Sud Est Asiatico).
La direzione degli attori, l'inserimento in montaggio degli scatti fotografici in bianco e nero in puro stile reportage di guerra, le scene on the road, le inquadrature fisse, sovente più esplicative di lunghe spiegazioni, come ad esempio i primi piani della fotografa veterana Lee Smith (Kirsten Dunst) nel terzo atto del film, efficaci nel farti comprendere come il personaggio abbia raggiunto un livello di saturazione tale da non tollerare più nemmeno un istante di quella professione, di quella vita.
A me invece "Men" aveva lasciato molto, molto perplesso. Questo invece l'ho apprezzato non poco. Tosto, durissimo ma esemplare nel descrivere l'anestetizzazione alla violenza, anche se si tratta di una guerra che ci riguarda da vicino (non capita tutti i giorni vedere un film dove la più forte democrazia del mondo viene abbattuta...) D'accordo invece sulla Dunst, meravigliosa.
RispondiEliminaTermine efficace, l'anestetizzazione della violenza. Sia per il film che per le realtà a cui si ispira.
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