lunedì 1 agosto 2022

John Mellencamp, Stricktly a one-eyed jack


Che tipo di rapporto si crea con un artista, quando ascolti le sue composizioni  per qualcosa come più di trentacinque anni, vale a dire, nel mio caso, due terzi della tua vita? 
Chiaro, all'inizio è l'affinità con un genere a farti avvicinare ad un interprete, poi c'è la fase del coinvolgimento totale, gli album mandati a ripetizione, i testi imparati a memoria, i passaggi delle liriche in cui più ti riconosci sottolineati in rosso e magari scritti sul diario di scuola o su qualche muro della stazione mentre aspetti il treno. Poi il tempo passa, i tuoi gusti si modificano, ma per qualche ragione quel riferimento è sempre lì, in agguato. Non c'è la frenesia di una volta nello scartare una sua nuova release, non c'è più la magia di un ascolto speciale, magari di notte con le cuffie, quando il resto della famiglia dorme, ma prima o dopo, all'uscita di un suo nuovo album, sai che gli dedicherai un pò più di attenzione di altri e che, siccome pensi di aver sviluppato un certo giudizio critico, come si fa con le persone a cui tieni, non lesinerai, se pensi sia il caso, critiche. 

Il primo ellepì di Mellencamp che ho comprato è stato Scarecrow (1985), ottimo successo nelle charts americane (quattordici volte platino, che significava quattordici milioni di copie, con il fiocco rosso di tre singoli al numero uno) e fucina di brani che ancora oggi sono tra i più richiesti dai fan. Ci arrivai, ovviamente, sulla scia di Springsteen, cercando altri eroi del blue collar rock (anche se, nel caso dell'ex coguaro, sarebbe meglio parlare di farmer-rock). Ci misi un pò a metabolizzarlo, ricordo che mi entrò molto più sottopelle il successivo The lonesome jubilee, forse anche per il suo intrecciarsi con una fase felice (una delle prime della post-adolescenza e per questo più travolgenti) della mia allora giovane vita. Mellencamp cantava di gente che in periferia ci stava bene ma che non ce la faceva a tirare avanti, a cui la banca portava via la fattoria a causa dei debiti, che amava il rock and roll, il ballo, che subiva piccole grandi ingiustizie: di tutti quegli elementi insomma di cui la vita, tra tragedie e momenti di gioia, è fitta.  Lo stile definitivo di Mellencamp (violini, fisarmoniche, banjio, steel guitar) comincia timidamente a delinearsi, derogando progressivamente al mainstream rock venato di Stones che caratterizza la sua produzione fino Uh-Huh (1983) proprio da Scarecrow. E' da qui che la strumentazione old-music si prenderà sempre più spazio fino a contenere la definitiva cifra stilistica del buon Little Bastard. 

Difficile dire cosa mi aspetti oggi da un nuovo lavoro di JM, dopo che le mie orecchie hanno attraversato in questi anni sostanzialmente tutti i generi musicali, senza badare se fossero considerati alti o bassi, succhiandone avidamente la linfa vitale, nel tentativo di ritrovare le emozioni delle prime volte che sono, per antonomasia, irripetibili. Forse è solo una incapacità mia di affrancarmi dagli artisti che mi hanno formato, oppure abitudinarietà, comfort zone, nostalgia, una voce e un sound che per il cuore assolvono la stessa funzione del detto "sight for sore eyes" per gli occhi. Altro non saprei ipotizzare, ma insomma, non è che ci debba necessariamente essere una spiegazione razionale. L'amore per la musica non lo è.

Sicuramente, al contrario di molti altri, Mellencamp ha dalla sua una grande, financo brutale chiarezza d'intenti. Il suo rifugio nel porto sicuro è nella musica che ama, nel folk rurale, nelle piccole storie, con qualche divagazione che rimanda ai tempi del vecchio coguaro, sapientemente compensata da pennellate jazz. Tutta questa autonomia artistica da sola non è garanzia di qualità, a volte anzi i suoi lavori scivolano nel ripetitivo, brani di un disco si confondono con quelli di un altro e le fotografie delle persone che vivono ai margini si sporcano di paternalismo, però questo ambito gli consente una dignità artistica propria di pochi altri coetanei (mi sovviene Neil Young, più vecchio e anarchico, ma insomma ci siamo capiti). 

E dunque questa sommaria descrizione dell'artista si ritrova nell'ultima fatica (finalmente ci arrivo) Stricktly a one-eyed Jack, rilasciata nei primi giorni di quest'anno e figlia di sessioni necessariamente svolte durante i lockdown. Non che l'effetto delle limitazioni alla vita sociale causate dalla pandemia si avvertano particolarmente nel mood del disco, visto che John riprende perlopiù il solco crepuscolare emerso tra le note dell'ultimo lavoro di inediti, Sad clowns & hillbillies del 2018, e con esso una certa fascinazione per l'approccio al canto di Tom Waits che in  occasione di quella recensione avevamo segnalato.

L'album regala in questo senso piccole grandi suggestioni, raggiungendo a mio parere lo scopo che si prefigge, con alcuni apici davvero emozionanti (la tromba che irrompe malinconica in Gone too soon, l'andamento swing di Driving in the rain, l'atipica - per Mellencamp -  conclusione pianistica di A life full of rain), qualche ruvida, riuscita toccata-e-fuga in ambito rock mellecampiano (Did you say such a thing e Lie to me) e un bell'aggancio allo stile folk di fine ottanta (Sweet honey brown avrebbe potuto tranquillamente stare su Big Daddy). Tutto bene dunque? Non proprio. La tanto attesa collaborazione con Springsteen è arrivata forse fuori tempo massimo, con il Boss che è presente in tre canzoni, in due di esse come corista e chitarrista (le già citate Did you say such a thing e A life full of rain) ed in una, Wasted days, in duetto vocale (con tanto di video). Spiace affermare che il pezzo, assieme a Chasing raimbow, è brutto a livelli di inascoltabilità, fa proprio crollare ogni sospensione dell'incredulità lasciandoti improvvisamente davanti a due vecchi (benestanti) immalinconiti per il tempo che passa che non trovano di meglio da fare che mettere assieme una manciata di concetti retorici e banali. Due pezzi che zavorrano quello che resta comunque un ottimo disco, che ha avuto la forza, ancora una volta, di distogliermi dal monopolio dell'ascolto di benaltri generi musicali.
E forse la ragione della mia lunga storia con John "Cougar" Mellencamp sta tutta qui.

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