giovedì 17 marzo 2022

AAVV, The Metallica Blacklist (2021) recensione 2/2


Qui la prima parte della recensione

Il terzo CD del tributo ai Metallica si apre con quattro versioni di una delle tracce più iconiche del Black album: Wherever I may roam. Purtoppo, lo affermo subito, le interpretazioni offerte dal rapper colombiano J Balvin, dal duo inglese di musica elettronica Chase & Status, dai The Neptunes (Pharrell Williams e Chad Ugo) e dal giovane countryman Jon Pardi non vanno oltre il livello di proposta gradevole, ma del tutto innocua. 

Meglio, molto meglio le tre versioni di Don't tread on me, tutte meritevoli di segnalazione, a partire dall'unione tra questa canzone e Nothing else matters , chiamata Don't tread on else matters ad opera dal produttore francese di musica elettronica Sebastian, che propone, per il primo pezzo, un funky/disco che può richiamare nella base ritmica Another one bites the dust dei Queen, e per il classico lentaccio un suggestivo accompagnamento da colonna sonora orchestrale. A seguire la versione della band alt-rock americana (dall'Alaska) Portugal.The man assieme al bassista/cantante dei Red Fang, Aaron Beam, che propongono un'interpretazione nervosa, elettrica, molto convincente. Insomma, il livello per Don't tread on me è alto, ma la partita se l'aggiudicano i Volbeat che trasformano il pezzo dei Metallica in un brano del proprio repertorio, ricordandoci la ragione per cui, nemmeno tanti anni fa, ci siamo innamorati del sound extreme metal/country/rockabilly di questo combo danese. 
Anche la doppietta di Through the never è baciata da una ottima dose di ispirazione, grazie al gruppo folk metal mongolo The Hu, che offre una versione ignorante quanto serve, e alla cantante errebì nigeriana Tomi Owò, che, al contrario, ci regala una elegante pop song, con una sferzata elettrica finale.

Ora, io posso anche capire tutto il narcisismo e la megalomania che sta dietro a questa operazione commerciale, però alla fine sempre di musica parliamo, e come tale è prodotta per essere ascoltata, no? Allora qualcuno dovrebbe spiegarmi come sia possibile essere sottoposti ad una sorta di cura Ludovico in modalità audio con dodici versioni dodici (suddivise tra terzo e il quarto CD) della stessa merdosissima canzone, senza perdere completamente la propria sanità mentale. 
Eh sì, sto parlando di Nothing else matters. Evito il track by track, o meglio artist by artist, i curiosi possono leggere i crediti dell'immagine sopra, dalla traccia trentacinque alla quarantasei. Mi limito ad affermare che in questo mare di melassa non riesco a salvare nemmeno la classe di Dave Gahan (in versione Soulsavers), che magari in un contesto diverso sarebbe anche emersa, oppure le improvvisazioni pianistiche alla Keith Jarrett di Igor Levit. Invece accendo un cero ai santi del roccherroll per i My Morning Jacket che della ballata propongono un'irresistibile, sbarazzina versione sixties sospesa tra tra le Ronettes di Be my baby e lo Springsteen di Hungry heart, e per Chris Stapleton, che impone il suo brand stilistico allungando il pezzo fino ed oltre gli otto minuti, di cui la metà composti da una goduriosa jam country/southern. 

Dopo la mattanza rappresentata da più di un'ora di versioni di Nothing else matters (ormai solo a scriverne il titolo sono colto da malore) quello che viene dopo è una boccata di aria fresca e rigenerante. Anche perchè siamo arrivati alla coda del disco, con le canzoni meno celebrate, e probabilmente meno commerciali del Black album. A dimostrazione di questo status, è solo una, ma molto riuscita, la cover di Of wolf and man, presentata dai folkers Goodnight, Texas. Per The god that failed, uno dei miei brani preferiti del disco originale, sono proposte due versioni, suonate dagli Idles e da Imelda May. Anche qui, in entrambi i casi obiettivo centrato, in particolare per i post-tutto inglesi, che si appropriano con arroganza della canzone, modellandola in modo da indossarla perfettamente. Arrivati a My friend of misery (tre versioni) esplode incontenibile tutto il mio entusiasmo, grazie all'interpretazione del sassofonista Kamasi Washington che ci porta in una prima parte del pezzo su terreni jazzy per poi esplodere, nel bridge, in un caotico, affascinante free che ti fa dimenticare tutte le Nothing else matters del mondo. Brividi. Chiudono Rodrigo y Gabriela che fanno, prendere o lasciare, i Rodrigo y Gabriela su The struggle within.

Il giudizio finale, anche in relazione a ciò che avrebbe potuto essere, mi sembra appena sufficiente. Chiara la volontà di agire fuori dal perimetro metal (come se i Metallica non fossero già "trasversali" al genere), ma allora serviva più coraggio, invece di insistere quasi esclusivamente sui mercati discografici latin e hip hop. Poi, se devo dire la mia, avrei amato una sezione del tributo riservata ai grandi del metal, sia in ambito thrash contemporaneo ai Four Horseman (Megadeth, Anthrax, Testament, Slayer) che nwobhm (Maiden, Priest, Saxon, Venom, etc.) che alle nuove leve. 
Ma vabbeh, chest'è.

Best tracks:

5) Wherever I may roam: J Balvin
6) Don't tread on me; Volbeat
7) Through the never: Tomi Owò
8)  Nothing else matters: My Morning Jacket; Chris Stapleton
9) Of wolf and man: Goodnight, Texas
10) The god that failed: Idles
11)  My friend of misery: Kamasi Washington
12) The struggle within: Rodrigo y Gabriela

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