lunedì 2 agosto 2021

Brutti, sporchi e cattivi (1976)


Nello scenario di una squallida baraccopoli alla periferia di Roma seguiamo le vicende della numerosissima famiglia dell'immigrato pugliese, parzialmente invalido, Giacinto, famiglia che vive alla giornata, tra espedienti e sfruttamento delle poche risorse economiche certe (la pensione della nonna). Non esiste coscienza di classe o solidarietà, a prevalere quotidianamente sono gli istinti più bassi, gli egoismi, i rancori, la sopraffazione, la scaltrezza e l'istinto di sopravvivenza.

Brutti, sporchi e cattivi non si limita ad essere un film da vedere obbligatoriamente, per capire tante cose, tra le quali l'incredibile libertà artistica che veniva concessa nei settanta agli autori cinematografici. L'impatto culturale della pellicola è stato talmente vasto da entrare, già con il solo titolo, nell'immaginario collettivo, nel linguaggio, nei nostri modi di dire. 

Scola, probabilmente nella migliore fase della sua carriera (è dell'anno prima l'indimenticabile C'eravamo tanto amati e dell'anno successivo il meraviglioso Una giornata particolare), firma un'opera con pochi precedenti nel nostro cinema mainstream: grottesca, crudele, senza speranza, volgare, con uno sguardo quasi completamente anaffettivo verso i suoi protagonisti, nella quale si ride sì, ma quasi sentendosi in colpa.
Il piano sequenza d'apertura con la macchina da presa che indugia sui corpi che dormono ammassati, uno sopra l'altro, per poi rivolgere il proprio occhio all'esterno, alla baraccopoli, negli ultimi istanti nei quali resterà silenziosa prima che quell'alveare umano riparta con la sua caciara e la sua operosa inoperatività, ci mostrano da subito una delle ragioni per le quali Scola è uno dei più importanti registi che l'Italia abbia mai avuto.

Dentro un'assoluta promiscuità ci viene mostrata una comunità di adulti che vivono come bambini, vale a dire senza filtro alcuno nelle relazioni interpersonali, senza senso di responsabilità, bussola morale o codici etici, al punto di sentirsi liberi di dare sfogo, quando possono, ad ogni pulsione del momento, sentendosi liberi di approfittare sessualmente di chiunque gli capiti a tiro, come succede solo nella dimensione onirica. I bambini veri, d'altro canto, crescono privi di una guida genitoriale, con l'unica accortezza di essere rinchiusi ogni mattina in un recinto improvvisato, nel quale stanno, senza supervisione alcuna, per tutto il tempo nel quale i loro genitori svolgono le proprie attività. Tra le tante contraddizioni di bambini portati a comportarsi da adulti e adulti da bambini, c'è Maria Libera, la ragazzina con gli stivali di gomma gialli, ultimo baluardo di innocenza che, oltre a sfacchinare nella baraccopoli, "sta a servizio" in una famiglia di Roma e che sembra ritrovare la sua fanciullezza solo quando ogni mattina inizia la giornata saltellando spensieratamente, sebbene carica di secchi da riempire d'acqua, sul muretto che delimita la zona.

Giacinto, interpretato in maniera sontuosamente controllata da Nino Manfredi, è il re di questa accolita di debosciati. Non solo in quanto capofamiglia, ma perchè, a causa di un incidente di lavoro, ha ricevuto un risarcimento di un milione di lire, un tesoro che custodisce gelosamente rifiutando di dividerlo coi familiari e nascondendolo ogni giorno in un posto diverso. Giacinto è un ubriacone rancoroso e con i suoi congiunti, che si tratti di figli, nipoti o moglie, si comporta in modo dispotico, scorbutico e violento, ma quando incontra la pasoliniana prostituta Iside (e a proposito, quanta poesia riesce a tirare fuori Scola dalle immagini dell'incontro tra un derelitto e una puttana) sembra redimersi e cercare la pacificazione con la famiglia che, al contrario, decide invece di ucciderlo in una sequenza, quella del pranzo all'aperto, terribile e sublime, per i movimenti della mdp che cattura il connubio tra gli sguardi, le espressioni, il linguaggio non verbale dei convenuti e le musiche di Armando Trovaioli. 

Con l'ultima sequenza di Maria Libera, sulla quale scorrono i titoli di coda, Scola ci toglie anche l'ultimo barlume di speranza, rappresentato dall'innocenza della ragazzina, lasciandoci soli con un epilogo malinconico, crudele ma dannatamente coerente.

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