lunedì 5 aprile 2021

It's never late to mend: Accept, Restless and wild (1982)


Altro recupero di un nome storico (in questo caso dell'heavy metal),che ho sempre trascurato. Eppure gli Accept (tedeschi della regione Renania settentrionale-Vestfalia), tutt'ora in attività, sono indiscutibilmente, assieme agli amati Scorpions, il nome di punta della gloria del metal germanico (ma non solo) dei primi anni ottanta. 
Può darsi che la ragione per cui in passato li abbia snobbati risieda nel loro improbabile "outfit" complessivo, dalle kitchissime copertine storiche (ricordate, no, quelle del disco eponimo di debutto, di Breaker o di Balls to the wall?), alla presenza scenica dell'allora frontman, il mitico Udo Dirkschneider, vocalmente strepitoso, ma, diciamo così, un pò improbabile come metal-hero. 

Ma, come ripeto spesso, il tempo può essere galantuomo, e in un periodo in cui sempre più gruppi emergenti riscoprono il sound metal delle origini (The new wave of traditional heavy metal), ho preferito colmare le mie lacune storiche prima di accontentarmi dei lavori nuovi, ma derivativi, dei pronipoti di Iron Maiden & co. 

Restless and wild è il lavoro numero quattro degli Accept, che esordiscono nel 1979, ma che con questo disco definiscono in maniera indelebile il proprio stile, imponendosi anche grazie all'ugola sgraziata ma efficace di Udo. Ugola evidentemente debitrice del timbro di Brian Johnson degli AC/DC, anche se nel dibattito su chi abbia copiato chi, c'è da tenere in considerazione come Udo abbia esordito un anno prima dell'australiano (che se ne esce nel 1980 con quella cosetta di Back in black). Insomma una diatriba degna di quella epica che accompagnò, agli esordi di carriera, Diego Abatantuono e Giorgio Porcaro sulla primogenitura dello slang del terruncello.  Non si può poi esimersi da citare il peso, nella band, del vulcanico talento chitarristico di Wolf Hoffmann.

L'album si apre con uno dei brani più identificativi del genere e attraverso uno stratagemma che verrà sfruttato da molti altri a venire. Approcciandosi per la prima volta al disco, infatti, veniamo accolti da una scricchiolante melodia folk tradizionale tedesca (di quelle da sagra della birra) riprodotta da un vecchio vinile. Dopo pochi secondi però la puntina del giradischi viene brutalmente spostata, producendo quel classico suono che graffia la superfice del vinile, lasciando il posto al terrificante urlo di Udo e dall'attacco, per l'epoca violentissimo (un drumming così impetuoso e veloce non era roba da tutti i giorni), di Fast as a shark, anthem assoluto di un intero movimento musicale, che fece la sua porca figura anche nel film Demoni di Lamberto Bava. Nessun altro pezzo del disco raggiungerà questa velocità di esecuzione, senza tuttavia che vengano a mancare adrenalina ed emozioni, a partire dall'altrettanto anthemica title track. 

Con lo scorrere dei brani emerge chiarissima la capacità della band di realizzare composizioni che oggi verrebbero collocate nell'ambito arena-rock, vale a dire in possesso di refrain perfetti nella loro semplicità da essere ricalcati, dal vivo, con spettacolari singalong (Ahead of the pack; Shake your heads; Flash rockin' man). La voce di Udo conferisce ai brani quell'allure malsana che, in epoca pre-thrash, pre-black e pre-death, probabilmente era un valore aggiunto, mentre l'indomabile ascia di Hoffmann passa con disinvoltura da ipertrofici pattern hard&heavy a raccordi debitori della musica classica (suo secondo grande amore, alle cui rivisitazioni ha dedicato due album solisti). Spuntano, inevitabilmente, apparentamenti coi modelli di riferimento dell'epoca (AC/DC, Saxon), ma la forza dei pezzi conferisce al lavoro una dignitosissima personalità.
Insomma un disco bello tosto e coeso, dal canonico formato dieci tracce per tre quarti d'ora di durata e con una doverosa, epica ed importante conclusione: la mitologica Princess of the dawn, irrinunciabile appuntamento nei concerti della band. 

Da questo disco ho ampliato la retrospettiva sulla band a tutto il primo periodo con Udo, cioè fino al 1986, anno in cui il frontman esce dalla band per poi ritrovarla brevemente (1993/1996) ed abbandonarla di nuovo, stavolta definitivamente, nelle mani di Hoffmann e dedicarsi a tempo pieno alla propria carriera solista.

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