lunedì 4 marzo 2019

Cody Jinks, Lifers (2018)

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E al decimo anno di carriera discografica Cody Jinks sfornò il capolavoro.
Il settimo disco del texano è un lussuoso compendio di musica americana, con l'aggiunta di uno scatto in avanti in tema di lyrics, aspetto che non è mai stato sottovalutato da Jinks, ma che qui trova davvero il suo apice, collocando l'artista a fianco dei migliori del suo tempo (Sturgill Simpson e Chris Stapleton i primi che mi vengono in mente), ma con molto meno attitudine snob, se capite cosa intendo.
L'album parte forte, e non si ferma più. Holy water è un pezzo rock arioso, entusiasmante nel suo incedere gioioso con protagonisti i soliti splendidi losers senza speranza in cerca di redenzione. Ma siamo solo all'inizio, perchè con Must be the whiskey Cody piazza un'altro pezzaccio che già è entrato nel ristretto lotto dei preferiti dei fans del countryman (i classici Mamma song; Cast no stones; David), un brano che sul refrain chiama spontaneamente il singalong come solo le grandi canzoni sanno fare. 
Anche tutti quelli che aspettano l'artista country alla prova della love song non possono che essere soddisfatti, dal risultato che Cody mette a disposizione nella tracklist: Somewhere between I love you and I'm leavin' possiede infatti le stimmate della perfetta canzone d'amore redneck, con quel lirismo che riesce ad essere al tempo stesso altamente poetico ed arrivare immediatamente al cuore.
Ma siccome Jinks è anche un performer collaudato da anni di concerti (anche) nei locali più malfamati dell'intera bible belt, sa quando arriva il momento di fare baldoria e lo dimostra piazzando nella raccolta due sconquassanti pezzi honky tonk (Big last name e Can't quit enough) che farebbero ballare anche uno scaldabagno, alternati ad un'accorata traccia folk quale è la title track e un paio di cowboy songs che rispondono al nome di Desert wind e Colorado.

Lifers è dunque un disco bellissimo e imprescindibile, che mi ha imposto di utilizzare una pratica, quella della recensione track by track, che non amo molto, alla quale però, dato il livello delle composizioni, ho dovuto cedere.
Il musicista texano, alla soglia dei quarant'anni e dopo una traiettoria artistica invidiabile, riesce a superare in maniera tutt'altro che scontata l'ottimo precedente lavoro I'm not the devil, lanciandosi nell'olimpo dei rappresentanti del true country e dell'americana a tutto tondo.

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