mercoledì 5 settembre 2018

Cinquanta

E va bene, sono cinquanta. Ma, pur restando in tema 1968, preferirei cogliere l'occasione per parlare d'altro. Nel solco pieno della linea editoriale del blog ad esempio, dei miei dischi preferiti tra quelli usciti cinque decadi (o dieci lustri) fa. Mi sembra di gran lunga più interessante rispetto a lamentele varie su acciacchi, ipocondria, speranza di vita, figli adolescenti, etc. etc. 

Aretha Franklin, Aretha in Paris
Durante il mitologico maggio parigino, la giovane Aretha Franklin (recentemente scomparsa) cantava all'Olympia di Parigi nella sua prima tournee europea. Quel concerto sarebbe diventato un disco imperdibile, con una scaletta che allineava, dentro un un repertorio fantastico (Satisfaction degli Stones, Respect di Otis Redding, Night life di Willie Nelson, Natural woman di Carol King, Come back baby di Ray Charles), la rabbia nei neri americani con le tensioni degli studenti francesi.

Van Morrison, Astral weeks
Al secondo album dopo l'uscita dai Them, Van the man apre al massimo il grandangolo dell'ispirazione partorendo un lavoro incredibile, dalle atmosfere folk, jazz, soul, psichedeliche. Senza un brano portante o un singolo killer (come sarà ad esempio per la title track del successivo Moondance) il disco è solido come una quercia, e come quell'albero è ancora lì a guardare tutta la musica e il tempo trascorso con fierezza.

Johnny Cash, At Folsom Prison
La storia la sanno tutti ormai, anche grazie al biopic Quando l'amore brucia l'anima. Nessuno credeva alle potenzialità di un live registrato dentro una prigione. Cash sì. E aveva ragione lui, come tenne a ricordare a tutti con la celeberrima foto con dito medio alzato e ghigno di sfida. At Folsom Prison è un ottovolante di emozioni: gli spoken dell'uomo in black, la sintonia coi detenuti che ridono ed esultano ai passaggi più forti delle crime songs, gli annunci delle guardie. Un pezzo di storia americana.


The Beatles, The Beatles (The white album)
Dicono che il cosiddetto white album più che un disco dei fab four sia un'opera solista, in primis di John e Paul, ma anche di Ringo e George. In effetti questo doppio ellepì (che raccoglieva l'eredità pesantissima di Sgt. Pepper, ma in fondo quanti dischi dei Beatles non raccoglievano le pesanti eredità dei loro predecessori?) non ha nella coerenza stilistica la sua forza. Ma forse è questo l'aspetto che mi ha sempre maggiormento affascinato. Il passaggio da Back in the USSR a Dear prudence, da Ob-La-Di Ob-La-Da a While my guitar gently weep, da Blackbird a Rocky racoon, da Happiness is a warm gun a Why don't we do it in the road? racchiude in sè un'omogeneità disomogenea con pochi pari.
Se questo è il risultato delle tensioni e delle divisioni laceranti in seno al gruppo, come si dice, avercene!

Jimi Hendrix, Electric ladyland
D'accordo il florilegio di uscite postume, ma resta il fatto che, in vita, Hendrix ha registrato tre soli album in studio. Electric Ladyland è l'ultimo di essi, quello che chiudeva una fase artistica, la parola fine sulla formazione a tre degli Experience (insieme a Jimi Noel Redding e Mitch Mitchell), prima che Hendrix acquisisse una maggiore coscienza black, optando per compagni di viaggio con il colore della pelle affine al suo. Electric ladyland è anche il lavoro che l'artista rivendicava con più orgoglio, quello nel quale ha avuto più potere decisionale in fase di registrazione. E infatti si sente, il blues si fa psichedelico, molti pezzi si dilatano, gli effetti dell'assunzione massiccia degli acidi emergono chiaramente nelle composizioni più lisergiche. Per certi versi si può dire, che, nel lotto di questi album, Electric ladyland sia quello che più rappresenta lo spirito del 1968.

The Cream, Wheels of fire
I Cream (Clapton, Bruce, Baker), con quattro dischi in tre anni rivoluzionano il sound blues fondendoci elementi psichedelici e riff feroci, qualcuno dice proto hard rock, per poi deflagrare a causa delle tensioni interne e il caratterino non proprio conciliante di qualche suo membro (Baker). Wheels of fire è il penultimo capitolo della discografia, ma è come se fosse l'epitaffio vero, visto la vacuità del successivo Goodbye. Esce su doppio vinile, con un disco in studio e uno live. Si apre con quella cosa enorme che è White room, e questo basterebbe a cancellare interi repertori di altre band. Il disco live non è da meno, con un incipit quale la versione al fulmicotone di Crossroads, di Robert Johnson.

The Rolling Stones, Beggars Banquet
Nella sua autobiografia, Richards sostiene che Beggars banquet abbia salvato la carriera dei Rolling Stones, bloccata in uno stallo artistico. L'intuizione del "samba-rock" di Symphaty for the devil è qualcosa di geniale ed irripetibile, così come l'immortale copertina del cesso sudicio. E le altre tracce? No expetactions, Street fighting man, Factory girl, Prodigal son. In pratica un greatest hits di inediti!

Adriano Celentano, Azzurro/Una carezza in un pugno
Chiudo con un disco che una volta avrei definito un guilty pleasure, ma che oggi non ho problemi a mettere assieme agli altri. Colpa di mio cugino, di un anno più grande, che da ragazzino adorava il molleggiato e che, mio malgrado, qualcosa mi ha trasmesso. Questo album è un operazione particolarissima, quasi due EP sistemati uno per lato. Lato A per Azzurro e altre cinque tracce, tra le quali Canzone, che segna la fine del sodalizio con Don Backy e apre la stagione delle cause tra i due. Lato B per Una carezza in un pugno, oltre che Buonasera signorina e, diciamolo, la pessima Siamo la coppia più bella del mondo.
Sarà la nostalgia.

E tanti auguri a tutti.


i festeggiati

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