lunedì 22 gennaio 2018

M - Il mostro di Dusseldorf


Ad alcuni film bisogna avvicinarsi con rispetto e riverenza, soprattutto quando, come nel mio caso, mancano molte delle basi per approfondire un'analisi tecnico-critica realmente competente.
Questo post pertanto non ha l'ambizione di essere una recensione compiuta, ma si limita a raccogliere sensazioni ed emozioni emerse dalla visione di uno dei capolavori di Fritz Lang.

M - Il mostro di Dusseldorf è un film del 1931, il primo in cui il regista tedesco usa il sonoro dopo una dozzina di lavori (tra i quali Metropolis e Il dottor Mabuse) di cinema muto.
La storia, ispirata ad un reale fatto di cronaca, narra le vicende di un serial killer che uccide bambine, sconvolgendo con le sue aberranti gesta un'intera città, sprofondata nel terrore e nell'angoscia.
La polizia è sotto pressione in quanto non riesce a trovarlo, e nel tentativo di risolvere il caso mette sotto scacco la piccola e grande criminalità, che, vedendo precipitare i propri affari, decide di mettersi anch'essa sulle tracce del maniaco.

So che quella che segue è una considerazione banale e scontata, ma Lang in questo film, sia dal punto di vista narrativo ma soprattutto da quello visivo, pone le basi tecniche per il secolo di cinematografia a venire. 
L'uso del fuori campo nelle sequenze iniziali è insegnato alle scuole di cinema, ma sono a dozzine le intuizioni narrativo/visive da rimarcare: il montaggio alternato delle riunioni della polizia e delle organizzazioni criminali, il killer che fischietta un ossessivo motivetto prima di entrare in azione (dinamica caratterizzante per centinaia di pellicole a venire), il gesso che marchia con una M il cappotto dell'assassino, le ricostruzioni di alcuni avvenimenti per immagini fisse, il silenzioso esercito dei barboni, sono frammenti di un'opera d'arte che, come fa il palloncino della bambina con i fili del telegrafo, resta imbrigliata nella nostra memoria.
Così il sublime finale, con il mostro (un insuperabile, superlativo Peter Lorre), catturato dalla malavita e condotto davanti ad un tribunale di criminali che vorrebbe linciarlo per i suoi delitti, che si lancia in un monologo difensivo straziante ed epocale, sia per contenuti che per interpretazione dell'attore, con i lineamenti del viso che mutano espressività assecondando la rabbia, la rassegnazione, l'impotenza o l'orgoglio via via espressi dalle sue parole. La fase narrativa di questo "processo" apre negli spettatori profonde riflessioni sulla giustizia e su chi debba giudicare e basterebbe, da sola, a giustificare la visione del film.

La pellicola è girata nel 1931. Solo due anni dopo in Germania avrebbe preso il potere Hitler. La grande crisi economica che sconvolse la popolazione tedesca non è al centro della narrazione, ma la povertà e la delinquenza ampiamente diffuse sul territorio e mostrate senza reticenze da Lang fotografano fedelmente lo strato sociale nel quale il nazionalsocialismo attecchirà a breve, costringendo alla fuga, tra gli altri, anche lo stesso Peter Lorre, perseguitato a causa delle sue origini ebree.
Lo scenario storico e l'approssimarsi dell'evento più abominevole del secolo sono anticipati in maniera preveggente ed inquietante dalla battuta pronunciata da una madre nell'ultima inquadratura del film (censurata nella prima versione dell'epoca), infatti quando ella dice che "dobbiamo vigilare sui nostri figli", gli sciocchi guardano il dito (il mostro), gli altri la luna (l'avvento del Partito Nazista). 

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