giovedì 5 ottobre 2017

Assistenti alla Comunicazione: una testimonianza

Per il post di oggi ospito lo scritto di un lavoratore di un settore poco noto ma dall'enorme utilità sociale: l'Assistente alla Comunicazione. Questa figura accompagna l'alunno disabile sensoriale (ad es. non udente) nella sua esperienza scolastica a trecentosessanta gradi, non solo in classe (traducendo le lezioni) quindi, ma anche nello studio a casa, nelle relazioni con compagni e docenti, e nella produzione di materiale didattico. Una sorta di ombra che dovrebbe essere messo nelle condizioni di seguire sempre il disabile.
L'Assistente alla Comunicazione dovrebbe quindi rivestire un ruolo centrale nella visione sociale di Regione e Comuni, e invece è una delle categorie più bistrattate, che è passata da un complicato meccanismo retributivo che si traduceva in pagamenti in nero, ad essere gestito dalla cooperazione sociale con l'unico vantaggio di essere uscito dalla "clandestinità", ma senza aver acquisito un briciolo di diritti e stabilità in più. 
Non è adeguatamente assistito nemmeno dal Sindacato, che non lo associa ad una categoria di riferimento (come, nella CGIL, può essere la Fiom per i metalmeccanici) ma è sospeso tra categoria dei precari e delle Coop Sociali. In definitiva, l'Assistente alla Comunicazione è lasciato da solo a combattere tra la quotidiana sopravvivenza, la ricerca di una stabilità, la voglia di mollare tutto e la preoccupazione per i propri assistiti, rispetto ai quali, spesso, a causa delle situazioni familiari non sempre agevoli, diventa l'unico punto fermo. 
Di seguito la testimonianza del lavoratore:


Da qualche anno il ritorno dalle vacanze è diventato penoso, principalmente a causa del lavoro: quando ho iniziato la mia attività con i disabili ero occupato nove mesi l'anno, da settembre a giugno, ma progressivamente la data d'inizio degli interventi si è spostata, prima verso metà settembre, poi verso la fine...
Quest'anno non so ancora quando inizierò e che cosa farò, perché lavorando in una cooperativa, se non ci sono "casi" (odio questa definizione) che rispondono alle tue competenze e vuoi lavorare, può capitarti di doverti occupare di altre disabilità. Così, dopo dieci anni di esperienze e studio stai ancora imparando, ti senti come il primo giorno. Pure peggio se, avendo concluso con un allievo l'anno prima, ti trovi ad accettare interventi mettiamociunapezza, ad esempio con uno studente all'ultimo anno di liceo il cui educatore non è più disponibile, magari con un ridicolo monte ore diviso tra te e un altro collega. Potrebbe andare tutto bene, come è successo a me, tuttavia l'autunno successivo ti troverai ancora a preoccuparti di dove andrai a finire, in che tipo di scuola, con quali allievi e quali insegnanti.

E' la frammentazione assoluta del lavoro, sia in termini temporali (3 ore qui, due ore là) che fisici (mai nello stesso posto alla stessa ora per due giorni di seguito), un processo che genera un senso di precarietà che va al di là del semplice dato economico, indiscutibile anche per chi abbia l'orario pieno; gli educatori e gli assistenti alla comunicazione sono come nomadi, si muovono da un punto all'altro -a volte molto distanti- del territorio, spendendo buona parte dello stipendio in trasporto, ma soprattutto mettendo insieme un puzzle di disponibilità temporale, emotiva e fisica. Sei presente a scuola in quei giorni, in quelle ore e -se sei fortunato da avere abbastanza lavoro- non puoi sgarrare e quando ti si chiede la presenza straordinaria per una gita o una lezione ti trovi ad arrovellarti su un sudoku di orari mentre telefoni al tuo coordinatore e a docenti vari e provi a ricomporre un ordine.

Non è particolare da poco, perché i tempi della scuola, per quanto contratti, spesso non sono sufficienti a trattare tutti gli argomenti o a portare a termine il lavoro che si sta facendo in classe. E l'educatore, incalzato dall'orario, dal traffico e dal divieto di fare straordinari, resta finché può, è ma spesso costretto a scappare lasciando le cose a metà, interrompere il flusso della relazione e del lavoro che è parte fondamentale della sua attività. Le conseguenze investono negativamente l'allievo, che vede comparire dei servizievoli fantasmi al proprio banco per qualche ora la settimana, ma anche per l'operatore, che non sta piantato per terra, ma vola, fluttua da una scuola all'altra, da una situazione emotiva all'altra, passando magari in una giornata dalla scuola primaria al liceo, dall'autismo alla disabilità sensoriale, all'iperattività. Ce n'è abbastanza per sviluppare una personalità multipla, anche perché in ogni scuola devi confrontarti con una quantità di figure (insegnanti, dirigenti, colleghi, allievi, genitori) ed essere in grado di andare d'accordo e "fare rete" in ognuna. Sul serio.

Lo scorso marzo ebbi la fortuna di trovare un lavoro in una scuola per 20 ore settimanali, tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Fu lì che mi resi conto di quello che mi stava succedendo, del perché mi sentivo così spaesato e inutile. Purtroppo quel lavoro è finito, ed eccomi nuovamente nella centrifuga. Per ora, come dicevo, non sto seguendo nessuno e se da una parte mi dispero per questa inattività, dall'altra ho modo di osservarmi e osservare i colleghi dall'esterno, da un punto fisso. 
L'ironia di tutto questo è che ho lasciato un impiego d'ufficio perché ero stanco di vedere sempre le stesse facce e sentivo di fare un lavoro che non serviva a niente. Ma, sinceramente, come si possono gestire in modo sano i rapporti con le figure educative di tre, quattro allievi contemporaneamente? E quale può essere il nostro contributo nella vita già abbastanza complicata di uno di questi ragazzi stando con lui/lei 3 o 4 ore la settimana su una frequenza di 30? Passiamo il tempo a studiare teorie edificanti che in queste condizioni diventano impraticabili. Non potendoci concentrare come si deve sul nostro lavoro, sempre distratti dalla necessità successiva, noi educatori finiamo per lavorare in emergenza perenne, con un limite dei tempi d'attenzione che si abbassa costantemente e la sensazione di vuoto e inconcludenza che al contrario cresce. 
Chi viene dal vecchio mondo del lavoro ha almeno gli strumenti per capire, ma i giovani rischiano di soffrire, non riuscire a darsi una spiegazione e provare sempre più frustrazione. Non credo sia una visione apocalittica, purtroppo, ma fin troppo realistica.

Adesso dovrei forse dirvi cosa penso si dovrebbe fare per cambiare questa situazione, ma non lo farò, perché secondo me tutti sanno come dovrebbero essere gestiti questi servizi per dare il massimo ai disabili e agli operatori. Le leggi ci sono, i soldi (contrariamente a quanto si sente dire) pure. La consapevolezza dell'importanza di una società in cui tutti trovino posto con le loro caratteristiche diverse e del lavoro di chi contribuisce a valorizzarle, quella manca.



Giusto due parole per chiosare. La persona che mi ha contattato attraverso conoscenze comuni per via del mio mestiere di sindacalista,  ha voluto restare anonima per timore di ritorsioni. Anche questo è lo specchio dei tempi. Anni fa la CGIL dei trasporti ha provocatoriamente fatto una conferenza stampa con presenti propri iscritti di una nota cooperativa bergamasca col volto coperto in quanto, già discriminati per l'adesione al sindacato di Camusso, avevano paura, denunciando le modalità di gestione della Coop e le condizioni di lavoro, di rimanere senza lavoro. Queste sono, perlopiù, le cooperative in Italia. Quando parlo di questa forma di sfruttamento legalizzato, ricordo sempre che, alla base del loro ordinamento ci dovevano essere tre valori forti: mutualità, socialità, democrazia
Non ci fosse da piangere, ci verrebbe ridere.

1 commento:

  1. Deprimente, proprio nel settore dove la sensibilità dovrebbe
    essere maggiore...

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