Il mio tentativo di
appassionarmi alla musica jazz nasceva, prima ancora di ogni altro aspetto sonoro, dall'enorme fascino
che quel mondo ha sempre esercitato nei miei confronti. Infatti, il jazz è l'unico caso
in cui sono arrivato ad un genere musicale non attraverso l'ascolto, ma dalla
lettura delle gesta dei suoi autori. Due, i testi per me fondamentali: l'autobiografia
di Miles Davis, tomo irrinunciabile per qualunque appassionato non solo di arte
ma anche di storia e società USA, e quella di Charles Mingus, anche qui un
pezzo di epopea del popolo afroamericano condito da tanta pulsione sessuale alternata occasionalmente da
qualche aneddoto musicale.
Purtroppo la
passione vera per questo genere non è mai deflagrata, nonostante mi sia
procurato, nel tempo, una trentina di album "obbligatori", cercando di approfondire i diversi stili e sottogeneri che
si sono susseguiti soprattutto dagli anni venti ai primi settanta, dalle big
band fino alla fusion.
Dovessi fare un
consuntivo, ci sono però due album che sono entrati a far parte del mio
bagaglio culturale ed emotivo al pari, chessò, di Darkness on the edge of town di
Springsteen, London Calling dei Clash, Vulgar display of power dei Pantera, Highway 61 di Dylan
o If I should fall from grace with god dei Pogues.
Sto parlando di Kind of blue di Miles Davis e My favorite things di John Coltrane.
Considerando che Coltrane è anche figura portante del personnel del disco di Davis, risulta
evidente quanto sia centrale, nel mio avvicinamento al jazz, questo enorme personaggio.
My favorite things è
stato pubblicato a marzo del 1961 in un momento speciale di ispirazione per Coltrane (solo un anno prima era stato pubblicato Kind of blue), che
si è liberato dalla scimmia dell'eroina, ha trovato la fede e dedica quasi ogni
momento della giornata a suonare, cercando di superare costantemente i suoi limiti.
Come nella collaborazione con Davis, anche My favorite things è suonato nello stile modale, ed è sorretto
da quattro composizioni, rielaborazioni di tracce che nel tempo
sarebbero diventate standard assoluti e irrinunciabili, patrimonio non solo del
jazz ma, erga omnes, di tutta la musica.
La title track,
deputata ad aprire il lavoro, è un autentico capolavoro. A ragione si può
parlare, riferendosi al jazz, di un prima dell'interpretazione di My favorite
things e di un dopo, completamente differente.
Il pezzo è sostenuto
da un pattern monumentale eseguito da John che, per come si imprime nel cuore, nella pancia e nel cervello, è quanto di più simile ad un
riff di un brano blues, rock o heavy. Il tema portante
rimbalza tra sax di Trane e piano di McCoy Tyner: si attorciglia, si perde tra le altre note, assottigliandosi fino quasi a scomparire, per poi risalire prepotentemente ad esplodere, in un caos calmo inebriante. My favorite things dura tredici minuti e quarantuno secondi e non c'è
nemmeno una frazione di tempo di troppo, anzi, vorresti che ne durasse il doppio.
Considerazione non insignificante, se sostenuta da uno come il sottoscritto che notoriamente non ama le
lunghe suites strumentali.
Coltrane, come Hendrix, va oltre la mera
riproposizione di un brano di altri, lo reinventa donandogli l'immortalità. E se nutrite perplessità, confrontate l'originale canzoncina in stile Disney (composta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II per Tutti insieme appassionatamente) con la rielaborazione di Coltrane e, se non siete sordi, traetene le conseguenze.
La magia
dell'ispirazione divina di quei giorni pervade anche il resto del lavoro, con Everytime we say
goodbye di Cole Porter (ripresa con successo negli ottanta dai Simply Red) e due pezzi di Gershwin: But not for me e Summertime, il
suo brano più iconografico e reintrepretato di sempre (Ella Fitzgerald & Louis Amstrong, Miles Davis, Doc Watson, Janis Joplin e un'infinità di altri) a comporre un'affascinante affresco che non perde nulla della sua abbacinante bellezza a quasi sessant'anni di distanza.
My favorite things non è un disco di cui vantarsi perchè "fa curriculum". E' un'opera che contribuisce a rendere migliore la razza umana.
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