lunedì 14 novembre 2016

Six Feet Under, Graveyard Classics 1-4 (2000-2016)


Il mio primo approccio con il death metal è stato del tutto grottesco e surreale. Ricordo qualcosa più di vent'anni fa, con gli amici, uno dei tanti sabato sera spesi in provincia, una festa della birra dalle parti di Crema, dove un gruppo di ragazzotti suonava appunto death. Il repertorio era perlopiù di cover, e ricordo l'effetto straniante che faceva il growling del singer nel vuoto del sotto palco e nel disinteresse generale tipico di queste situazioni. Verso la fine la band attacca una versione death della sigla del cartone animato giapponese Jeeg  (Jeeg vah! Cuore e acciaio...) che strappa più di un sorriso ma almeno raggiunge l'obiettivo di far alzare la testa dal panino con la porchetta ai distratti presenti.
Ecco, i primi ascolti della saga Graveyard Classics dei Six Feet Under (niente a che vedere, ovviamente, con l'omonima serie tv) mi hanno fatto tornare in mente quella sera. La band, attiva dal 1995 ed oggi ormai di esclusiva proprietà del singer Chris Barnes, unico superstite della formazione originaria, da una quindicina d'anni alterna la zuppa (commercialmente parlando) di album composti da materiale inedito al pan bagnato di cover di classici hard rock & heavy metal, che probabilmente gli permettono di pagare qualche rata della macchina.
Il primo tributo è del 2000 ed è una celebrazione dei riferimenti musicali d'infanzia della band. Il growling di Barnes è di quelli perfettamente ascoltabili (a differenza di chi predilige uno stile tipo gorgoglio del caffè quando sale nella moka) e le canzoni originali sono chiaramente riconoscibili. Per cui, superato lo spiazzamento iniziale nell'ascoltare un pezzo giocherellone come T.N.T. degli AC/DC interpretato con le accordature basse, le atmosfere low-fi e il caratteristico vocione di Barnes, ci si comincia a divertire. Di conseguenza le successive (vado in modalità random) Sweet leaf (Black Sabbath), Smoke on the water (Deep Purple), Blackout (Scorpions) e finanche Purple haze (Jimi Hendrix) filano via piacevolissimamente.
Visto il buon interesse suscitato, nel 2004 esce il volume due e stavolta i SFU cambiano il tiro, proponendo cover non di una manciata di canzoni di artisti vari, ma di un album per intero. Non un album a caso, ma la pietra miliare Back in black degli AC/DC, riproposto nella sua interezza, canzone per canzone, nella tracklist originale. Ormai l'orecchio dell'ascoltatore si è assuefatto allo stravolgimento dei pezzi (nella forma, non nella sostanza) in salsa death e il disco, nel suo piccolo, riceve anche buoni riscontri.
Nel 2010, durante lo iato discografico più lungo del gruppo (quattro anni) esce Graveyard Classics 3, che riprende la formula dell'esordio, dieci pezzi per dieci differenti band. Ad essere omaggiati questa volta, sono, tra gli altri, Mercyful Faith, Twisted Sister, Prong, Anvil, Metallica e Van Halen. L'interpretazione vocale di Chris diventa più cupa, orientandosi allo stile più estremo di cui alla moka sopra citata.
L'ultimo episodio è storia recente. A giugno esce infatti il quarto capitolo dei classici da cimitero e stavolta il "privilegio" del tributo, come si intuisce dal sottotitolo (The number of the priest) se lo spartiscono quasi equamente Iron Maiden e Judas Priest, i primi con sei canzoni e i secondi con cinque. Le scelte questa volta, pur cadendo su brani importanti delle band inglesi, evitano quelli di maggior successo. Non troviamo quindi materiale tipo Run to the hills o Living after midnight ma roba più da die hard fans come Nightcrawler o Genocide per i Priest o Prowler e Stranger in the strange land per i Maiden.

Per chi fosse incuriosito dall'approfondimento di questo particolare sotto genere metal ma non avesse voglia di misurarsi con opere a volte inaccessibili (ai neofiti), la serie Graveyard Classics può rappresentare un'ottima iniziazione.

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