lunedì 3 ottobre 2016

Steven Tyler, We're all somebody from somewhere


Dopo oltre quarant'anni di attività con gli Aerosmith, durante la quale ha attraversato tutte le fasi del rock system: la gavetta, il successo, gli eccessi, le tossicodipendenze, l'oblio e la risalita, Steven Tyler arriva, alla veneranda età dei sessantotto, ad incidere il suo primo album solista.
Molto si è letto in giro delle elaborate lavorazioni necessarie a far arrivare We're all somebody from somewhere nei negozi di dischi (qualunque cosa questa definizione significhi, ormai). L'elemento più frequente che emergeva dalle anticipazioni dei media era che si sarebbe trattato di un disco country.
E va bene, il nucleo centrale dei pezzi di We're all somebody from somewhere è sicuramente riconducibile all'imperante pop country nashvilliano di questi ultimi tempi, i patterns di brani come Love is your name, Somebody new, I make my own Sunshine, Somebody new e Red White and you sono da questo punto di vista inconfondibili, però...però c'è dell'altro.
Intanto delle prime quattro tracce deputate ad aprire il lavoro, tre vanno stilisticamente fuori tema,  con un pezzo piuttosto oscuro dalle liriche spietatamente autobiografiche come My own worst enemy, lo sporco blues Hold on, l'ariosità della title track e la ballata in stile Aerosmith It ain't easy.
Solo successivamente subentra il pattern principale del lavoro (che l'ha portato fino alla vetta alle classifiche di genere country) , ma anche lì, con l'eccezione di una Love is your name, totalmente spersonalizzante la timbrica di Tyler, il resto raggiunge un buon equilibrio tra l'orientamento stilistico delle composizioni e l'ingombrante passato  del singer.
Del tutto superflue, al contrario, le rielaborazioni/filler di Janey's got a gun degli stessi Aerosmith e Piece of my heart, portata al successo da Janis Joplin.
 
Non è un brutto disco, We're all somebody from somewhere, si ascolta volentieri ed è un buon compagno di viaggio nei tragitti in auto. Risente probabilmente della lunga gestazione, del tentativo di farne un blockbuster e del convergere al suo interno di canzoni che provengono da diversi momenti della vita del loro autore, con relativo spiazzamento dovuto agli sbalzi umorali percepiti.

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