lunedì 1 agosto 2016

Red Hot Chili Peppers, The getaway

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Ricordo di aver letto Lou Reed affermare come l'ascolto più importante di un nuovo disco fosse il primo, in quanto quello è il momento, unico e irripetibile, nel quale i nostri ricettori sono terreno fertile, pronto ad essere inseminato dai nuovi germogli musicali. Beh, avessi dovuto esprimere un giudizio definitivo di The getaway sulla base del primo ascolto, più delle parole sarebbe stata efficace l'immagine del ciddì che volava fuori dalla finestra di casa mia accompagnato da una sequela di improperi. 
E invece.

Invece, complice un'agognata settimana di relax sperduto in una zona montana dove il mio telefonino non ha campo, ho messo sotto il nuovo lavoro dei Red Hot Chili Peppers (a tre-quattro canzoni per volta, che è il limite massimo di tempo concessomi prima che mio figlio reclami la mia presenza) e diamine, devo confessare che il tempo ha lavorato a suo favore. Intendiamoci, il glorioso passato è irrimediabilmente andato e non credo possa più tornare: una volta regolati i conti con questo assioma si può apprezzare quello che di buono è rimasto in un album (l'undicesimo a cinque anni di distanza da I'm with you ) di un gruppo che è in giro da quasi trentanni, i cui componenti in ogni intervista non mancano mai di ribadire lo stupore di essere ancora vivi, dopo gli eccessi di gioventù.

I peppers moderni e salutisti, che possono permettersi di scegliere un produttore di grido come Danger Mouse (dopo l'accantonamento di Rick Rubin e il cordiale rifiuto di Brian Eno e Nile Rodgers), invece, confezionano un tredici tracce all'insegna del consolidato gusto per la melodia e per i patterns radio friendly. Ecco allora, pronte per un massiccio airplay Dark necessities, Encore e Goodbye angels, ma anche il lento The longest wave o la disguided ballad Sick love.
In questi peppers appare abbastanza evidenze come le chiavi della macchina siano consegnate a Flea e Kiedis. Sono loro i depositari di ciò che resta dell'antico splendore che si dischiude in pezzi come We turn red, This ticonderoga, Go robot (la mia preferita) e Detroit, mentre rimangono un po' più defilati le chitarre di Klighoffer e le pelli di Smith. La chiusura è saggiamente lasciata alla malinconia e all'introspezione di classe con The hunter, e la psichedelica (con incipit morriconiano) Dreams of a samurai (forse dedicata a Scott Weiland e forse no):senza dubbio il brano meno accondiscendente dell'intera opera.

Insomma, una volta messa da parte l'iconografia dei “nostri” Red Hot Chili Peppers si può scoprire in The getaway un disco piacevole, confezionato con classe, intelligenza e misura. Questi sono peppers moderni: prendere o lasciare.


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