Sembra ieri, ma i Paradise Lost sono in giro da qualcosa in meno di trent'anni. In tutto questo tempo raramente hanno sbagliato un album, sia quando hanno "difeso la fede", incidendo cioè dischi duri e intransigenti di gothic/death metal, sia quando hanno sperimentato con l'elettronica e anche quando, pur rimanendo fedeli a se stessi, hanno raggiunto discreti risultati di vendita traguardando una buona visibilità anche al di fuori degli stretti recinti del genere.
The plague within è il quattordicesimo album della formazione inglese ed è, rarissimo caso per una band di così lungo corso che in teoria dovrebbe aver esaurito da tempo la vena creativa, uno dei lavori più ispirati e convincenti dell'intero repertorio dei cinque musicisti.
L'album si dipana come da tradizione lungo scenari desolanti e spettrali, attraverso un inconfondibile brand musicale estremamente cadenzato ed evocativo, dove i riff sono al tempo stesso marmorei e stratificati e il cantato di Nick Holmes torna ad alternarsi tra il "clean" ad un aristocratico growl.
Il disco è un tripudio di sottogeneri metal rappresentati al loro meglio. Se il gothic/melodic death del trittico iniziale No hope in sight; Terminal; An eternity of lies (il cui intro è elegantemente impreziosito dall'utilizzo di una viola) lascia affiorare dalla superfice paludosa irresistibili ricami melodici, da Beneath broken earth in poi si precipita nel doom più rigoroso e integralista, per passare quindi alla sequenza più cupa dell'opera, rappresentata da Sacrifice the flame e Victim of the past, strategicamente posizionata nella tracklist prima dei furiosi break death metal di Flesh from bone e del sorprendente classic heavy metal style di Cry out.
Anche se si tratta di pochi secondi, i cori gregoriani alla Blind Guardian posti all'inizio della conclusiva Return to the sea, sebbene centrino l'obiettivo di un ulteriore drammatizzazione delle atmosfere, rappresentano l'unica nota stonata rispetto alla solidissima cifra stilistica complessiva dell'album (e della canzone stessa).
Lo so, mi sono bruciato come un pivello il giudizio conclusivo sul disco nella premessa iniziale. Non mi resta che ribadire il concetto rafforzandolo: pur non essendo esattamente un esperto dei generi portati avanti dai Paradise Lost ho la presunzione di indicare The plague within, ad oggi, miglior disco metal del 2015. Di più. Servirà un capolavoro autentico da parte della concorrenza per spodestare questa formazione dal trono.
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