lunedì 11 maggio 2015

Whitesnake, The purple album

 
Il trappolone dell’auto citazione, soprattutto per artisti che hanno raggiunto il loro picco creativo più di un quarto di secolo fa e oggi annaspano attaccati a quel poco di notorietà che gli resta,  più che un rischio artistico è diventato con il tempo rifugio sicuro per conservare la propria nicchia di fedeli. Bene, tra i molti che negano piccati questa evidente dinamica, David Coverdale (a sto giro) almeno scopre le carte, andando a riproporre con i suoi Whitesnake, una sorta di greatest hits del periodo in cui il biondo singer ha esordito nel rock biz dalla porta principale, cioè con le formazioni passate alla storia attraverso le denominazioni di mark III e mark IV dei Deep Purple.
E per uno come me, fanatico integralista del periodo artistico della band che va dal 1969 al 1973, quando la cosiddetta mark II impresse il marchio porpora a fuoco nella memoria collettiva di ciascuno di noi, la scelta del frontman è quantomai stimolante. Già, perché mi porta a riscoprire album sottovalutati (Burn, Stormbringer, Come taste the band) che all’epoca spinsero verso territori musicali meno praticati il consolidato brand DP e che avevano l’unica colpa di essere arrivati dopo i capolavori storici della band.

Il trattamento a cui Coverdale sottopone quel repertorio equivale ad una robusta cura ricostituente che sposta in alcuni passaggi il mood della produzione oltre l’hard rock,  verso lidi più propriamente metal (un esempio su tutti: You fool no one che ha un tempo alla Metallica), grazie soprattutto al notevole lavoro dell'axeman Joel Hoekstra, ex Night Ranger. Ne consegue che il contributo delle tastiere, originariamente onnipresenti vista la centralità dello strumento nel sound  e l’autorevolezza del compianto Jon Lord, è pertanto marginalizzato in nome di un risultato finale magari meno di personalità ma maggiormente sferzante. Risultato di cui beneficia alla grande l’open track Burn, che celebra uno dei riff assassini più incisivi e meno celebrati del genere. Sugli scudi anche Love child; Sail away; Mistreated; Might just take your life e Soldier of fortune, che vanno a comporre un’encomiabile bilanciamento tra ballate folk blues e solidi rifferama.
Dopodichè lascio ad altri il giudizio su quale sia la migliore prestazione vocale tra il David Coverdale ventenne e quello sessantaquattrenne. Anche perché, in questo lavoro mi sembra che l’ugola del biondocrinito passi quasi in secondo piano in relazione alla prova estremamente convincente fornita dal resto della band (oltre al già citato Hoekstra, Tommy Aldrige alle pelli, Michael Devin al basso e Reb beach alla ritmica): musicisti che di norma passano in secondo piano rispetto all’esposizione mediatica e all’allure di David, ma che qui si prendono una grandiosa rivincita.
 
P.S. Nel caso qualcuno se lo chieda: sì, dopo l’ascolto intensivo di The purple album ho provveduto ad ordinare su amazon i tre dischi dei Deep Purple richiamati in servizio dall’operazione.

4 commenti:

  1. Ho sentito qualcosa e mi sembra buono.Anche se,inutile dirlo,difficle doppiare gli originali. E poi in Come taste the Band c'era un chitarrista dal tocco inimitabile: Tommy Bolin.

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  2. Massì, è un'operazione superflua
    ma tutto sommato divertente

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  3. non è mai troppo tardi per ammettere i proprio sbagli Monty... :)

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  4. Quello non è mai stato un problema per me :)

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