Il
trappolone dell’auto citazione, soprattutto per artisti che hanno raggiunto il
loro picco creativo più di un quarto di secolo fa e oggi annaspano attaccati a
quel poco di notorietà che gli resta, più
che un rischio artistico è diventato con il tempo rifugio sicuro per conservare
la propria nicchia di fedeli. Bene, tra i molti che negano piccati questa
evidente dinamica, David Coverdale (a sto giro) almeno scopre le carte, andando
a riproporre con i suoi Whitesnake, una sorta di greatest hits
del periodo in cui il biondo singer ha esordito nel rock biz dalla porta
principale, cioè con le formazioni passate alla storia attraverso le
denominazioni di mark III e mark IV dei Deep Purple.
E
per uno come me, fanatico integralista del periodo artistico della band che va dal 1969 al 1973,
quando la cosiddetta mark II impresse il marchio porpora a fuoco nella
memoria collettiva di ciascuno di noi, la scelta del frontman è quantomai
stimolante. Già, perché mi porta a riscoprire album sottovalutati (Burn, Stormbringer, Come taste the band)
che all’epoca spinsero verso territori musicali meno praticati il consolidato brand
DP e che avevano l’unica colpa di essere arrivati dopo i capolavori storici
della band.
Il
trattamento a cui Coverdale sottopone quel repertorio equivale ad una robusta cura
ricostituente che sposta in alcuni passaggi il mood della produzione oltre l’hard
rock, verso lidi più propriamente metal
(un esempio su tutti: You fool no one
che ha un tempo alla Metallica), grazie soprattutto al notevole lavoro dell'axeman Joel Hoekstra, ex Night Ranger. Ne consegue che il contributo delle tastiere,
originariamente onnipresenti vista la centralità dello strumento nel sound e l’autorevolezza del compianto
Jon Lord, è pertanto marginalizzato in nome di un risultato finale magari meno
di personalità ma maggiormente sferzante. Risultato di cui beneficia
alla grande l’open track Burn, che celebra
uno dei riff assassini più incisivi e meno celebrati del genere. Sugli scudi
anche Love child; Sail away; Mistreated; Might just take your life e Soldier of
fortune, che vanno a comporre un’encomiabile bilanciamento tra ballate folk
blues e solidi rifferama.
Dopodichè
lascio ad altri il giudizio su quale sia la migliore prestazione vocale tra il
David Coverdale ventenne e quello sessantaquattrenne. Anche perché, in questo
lavoro mi sembra che l’ugola del biondocrinito passi quasi in secondo piano in
relazione alla prova estremamente convincente fornita dal resto della band
(oltre al già citato Hoekstra, Tommy Aldrige alle pelli, Michael Devin al basso
e Reb beach alla ritmica): musicisti che di norma passano in secondo piano
rispetto all’esposizione mediatica e all’allure di David, ma che qui si prendono una grandiosa
rivincita.
P.S.
Nel caso qualcuno se lo chieda: sì, dopo l’ascolto intensivo di The purple
album ho provveduto ad ordinare su amazon i tre dischi dei Deep Purple richiamati in servizio
dall’operazione.
Ho sentito qualcosa e mi sembra buono.Anche se,inutile dirlo,difficle doppiare gli originali. E poi in Come taste the Band c'era un chitarrista dal tocco inimitabile: Tommy Bolin.
RispondiEliminaMassì, è un'operazione superflua
RispondiEliminama tutto sommato divertente
non è mai troppo tardi per ammettere i proprio sbagli Monty... :)
RispondiEliminaQuello non è mai stato un problema per me :)
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