Stetson calato in testa, bandiera americana dipinta sul volto: dovessimo giudicare dalla copertina, il contenuto di The underdog, ultimo album di Aaron Watson, sembrerebbe l'ennesimo, ampiamente scontato, lavoro di mainstream country. E invece basta lo struggente violino che regge la delicata melodia di The prayer, l'introspettiva traccia l'apertura, per capire che Watson non è un prodotto preconfezionato dell'industria di Nashville. Inoltrandosi nella tracklist e ritrovandosi ad ascoltare piacevolmente più volte l'album, si evidenzia meglio l'identità del lavoro, che è sì capace di offrire pezzi che hanno trainato il disco ai vertici delle classifiche di genere, ma anche una coerenza di fondo che conferisce una luce diversa, del tutto particolare, a questo album rispetto ai tanti prodotti per il mercato country USA.
Watson deve a mio avviso molto a Garth Brooks, sia nei pezzi movimentati (Freight train, Getaway truck, Family tree; The underdog) che in quelli lenti (That look; Bluebonnets; One of your nights), mentre Rodeo queen è inaspettatamente cantata con un piglio da Billy Joel periodo 52nd Street.
Ma il vero capolavoro del disco è piazzato in coda di questo riuscito bigino di redneck music. Fence post è infatti l'autobiografica storia di Aaron, raccontata come se fosse suonata dal vivo, e delle difficoltà dell'artista, originario del Texas, a trovare un contratto discografico in Tennessee a causa dello scarso appeal commerciale dei suoi pezzi. Una canzone insieme divertente e orgogliosa che potrebbe essere stata scritta indifferentemente da Cash, Haggard, Kristofferson o Coe, ma che rimanda anche ad uno storyteller irlandese che risponde al nome di Christy Moore.
Migliore riconoscimento che l'essere paragonato a tali mostri sacri, per un artista che ha cominciato ad assaporare il successo dopo una lunga e faticosa gavetta, penso non possa esserci.
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