giovedì 31 ottobre 2013

Volbeat live, Trezzo sull'Adda (MI) 11/10/2013 (1/2)

Vedere i Volbeat dal vivo ha rappresentato per me, Filo ed Ale la chiusura di un cerchio, il coronamento di un inseguimento alla band  iniziato in sordina e proseguito sulle ali di un hype crescente, mano a mano che ci addentravamo nella produzione presente e passata del combo. Non c'è da meravigliarsi dunque, se, alle 23.25 circa dell' 11 ottobre, terminate le due introduzioni deputate a precedere l'ingresso sul palco del gruppo (Born to raise hell dei Motorhead e Let's shake some dust, strumentale rycooderiano che apre le danze dell'ultimo Outlaw gentlemen and Shady ladies),  la nostra eccitazione fosse al suo climax massimo.

Flash forward dentro il flashback (perdonate la deformazione da serial addicted): come confesserò ad Alessandro lungo la strada del ritorno, per me partecipare ad un concerto significa principalmente cantare. Sfogare cioè le tensioni che mi si accumulano addosso attraverso dosi massicce di singalong, accompagnate, finchè il fisico regge, ad un po' di pogo.
Ecco, i Volbeat sono in questo senso una dream band.
Lasciate stare le evidenti patologie mentali del sottoscritto, che si è preparato al concerto attraverso la memorizzazione compulsiva dei testi manco dovesse presentare un esame universitario: quella del gruppo danese è una musica che apre la manetta dei cori e dei ritornelli al punto che basta davvero poco per sentirsi coinvolto e partecipare al rito pagano che i quattro offrono ogni sera, da una decina di anni a questa parte, sui palchi di mezzo mondo.

Nonostante la scandalosa vicinanza da casa, è la prima volta che assisto ad un concerto al Live Club di Trezzo e non posso che spendermi in lodi per il posto: la location è davvero eccellente , in grado com'è di soddisfare sia chi anela l'anarchia del pit, sia quanti si vogliano invece godere l'act in santa pace, allocandosi su posizioni alternative alla ressa sotto il palco grazie agli spazi soppalcati e persino a qualche posto a sedere.
Il programma della serata prevede la presenza del cosiddetto gruppo spalla, e il ruolo, per quanto possa sembrare offensivo visto che la band calca le scene da tre decenni, spetta agli americani Iced Earth. Personalmente sono sempre felice di avere la possibilità di vedere due esibizioni al prezzo di una, e, per le ragioni che illustravo sopra, da sempre cerco di assimilare preventivamente anche i pezzi degli opener in modo da godere appieno della loro esibizione. Beh, con gli Iced Earth l'operazione empatia proprio non m'è riuscita. La playlist che avevo preparato con circa un mese d'anticipo ha visto infatti la fessura del lettore ciddì giusto un paio di volte. Troppo ammorbante, fuori tempo massimo e a tratti (involontariamente) comico l'heavy metal proposto dai baldi (ex) giovani di Tampa, Florida, ai quali,  va comunque riconosciuto l'onore delle armi per l'ottimo atteggiamento tenuto e per l'umiltà con la quale continuavano a scaldare il pubblico inneggiando ai Volbeat. Tra l'altro, tra i convenuti, molti dimostravano la propria devozione alla band, sfoggiando loro t-shirts.

Tra la fine del set degli Iced Earth e l'inizio di quello degli headliner, con Filippo decidiamo che è il momento di avanzare, mentre Ale rimane nelle retrovie. Con consumata abilità giungiamo a poche file dal palco e finalmente, dopo un'attesa che sembra interminabile, farcita da qualche chiacchera un po' da matusa sulla fauna locale (tra l'altro ci stupiamo della presenza di molte ragazze, non solo tamarre di rigore, ma anche "normali"), luci e musica diffusa si spengono, e in noi scatta subito l'occhio della tigre. La band non è ancora sul palco, ma fa alzare ulteriormente la temperatura con le due intro di cui ho scritto nella premessa del post. E poi, beh. Poi si scatena l'apocalisse.
 immagine di Paolo Bianco dal sito soundsblog.it 



Parte uno di due, continua

mercoledì 30 ottobre 2013

Aldo Giovanni e Giacomo, Ammutta Muddica


Aldo Giovanni e Giacomo sono un po' di famiglia, a casa nostra. Alla fidelizzazione verso il trio che già da tempo coltivavo insieme alla sweet half, si è aggiunta la curiosità di Stefano, che, nel tempo, ha cominciato ad apprezzarli. Del resto non ci sono molti comici italiani che puoi fare vedere ad un bambino di nove anni. AG&G qualche parolaccia se la faranno anche scappare, ma di norma sono privi di quella volgarità di fondo e di quei doppi sensi stantii che sembrano essere l'unico volano sul quale agiscono quasi tutti gli altri. Oltre a questo, personalmente, riconosco ai tre di aver già lasciato ai posteri degli ottimi lavori, come lo spettacolo teatrale I corti e il primo trittico di film: tutte produzioni che resistono bene all'usura del tempo.
Poi (inevitabilmente?) la qualità della loro offerta ha cominciata a scendere, lenta ma inesorabile, contestualmente alla fuoriuscita dal gruppo di Marina Massironi, fino a toccare il punto di non ritorno di Anplagghed, spettacolo teatrale assolutamente terrificante, che ebbi la sfortuna di vedere anche a teatro.
 
Per tutte queste ragioni non nutrivo molte aspettative in questo nuovo tour teatrale che ha affollato le sale nella stagione scorsa e che è stato riproposto quest'anno nei cinema, in un'unica serata (il 16 ottobre).
Fortunatamente mi sbagliavo. Il trio infatti è riuscito a dare un colpo di reni alla staticità dello spettacolo precedente, riuscendo a realizzare uno show in cui si ride spesso e in cui i classici character che gli attori si sono assegnati, consolidandoli nel tempo, vengono riproposti senza risultare però stucchevoli. Lo schema è sempre quello dei quattro-cinque sketch corti, coordinati scenograficamente dalla regia, visionaria con moderazione, di Arturo Brachetti. Nonostante la grande simpatia, l'unica nota stonata è purtroppo rappresentata dalla Fallisi, moglie di Aldo e prezzemolino delle rappresentazioni, la cui presenza troppo spesso appare forzata e/o superflua.
Proprio a lei tocca la caratterizzazione caricaturale di una cinese che mi ha fatto tornare ai tempi in cui i neri africani venivano mostrati al pubblico in versione "zi buana", una modalità che, fortunatamente è oggi considerata offensiva. Chissà perché invece possiamo continuare a perculare i cinesi raffigurandoli come stupidotti che ridono sempre e mettono le L al posto delle R. Evidentemente, per la Cina, il politicamente corretto non è ancora vicino.
 
A parte questo dettaglio, i tre la portano a casa con classe e simpatia.

New wave of american country music: Kellie Pickler, 100 proof (2012)


Kellie Pickler racchiude in se tutti gli elementi che normalmente mi provocano allergia, tenendomi a mille miglia di distanza da qualunque artista, ma in particolar modo da quelli country. Prima di tutto deve il suo lancio nel music biz alla partecipazione ad uno dei tanti talent show televisivi (il noto American Idol), poi fa pop country, ed infine è troppo figa per essere anche autenticamente brava (questa è una mia patetica convinzione, compatitemi). 
Ma (e come diceva quel tale in Game of thrones, la parte della frase che conta è solo quella che viene dopo il "ma") le regole sono fatte per essere infrante, ed io, una tantum, provo ad uscire dalla compagnia di quei loschi debosciati suonatori di banjo alla Un tranquillo week-end di paura, che rappresentano per me il vero spirito outlaw del country americano, e mi faccio un giro nella Nashville bene, per vedere di nascosto l'effetto che fa.

E beh, l'effetto di 100 Proof, terzo album della Pickler è molto positivo. Pop country creato per rassicurare, piacere a tutti e scalare le classifiche, ma che, grazie ad un pizzico di personalità in più riesce ad emergere dalla massa, sia nei suoi passaggi movimentati che nelle immancabili ballate spezzacuori. 
Gli undici episodi (per trentacinque minuti scarsi) che compongono il disco sono infatti democristianamente suddivisi tra honky tonk che se ci fossero ancora i juke box sarebbero di certo i più suonati nei bar per truckers dell'intero southwest (Where's Tammy Winette; Unlock that honky tonk; Little house on the highway), tracce nate col bollino preventivo delle hits (Tough), ballate da fidanzatini da high school (Stop cheatin' on me; Long as I never see you again), l'immancabile, delicata, dedica alla mamma (Mother's day) e al padre scomparso prematuramente (The letter (to daddy) ). Un violino qui, una slide lì, un banjo equalizzato così basso che bisogna usare i cani da caccia per scovarlo: la produzione è pulitissima, tutta finalizzata ad enfatizzare la (bella) voce della cantante del North Carolina, che, pur facendosi coadiuvare da altri autori e musicisti, riesce a mettere lo zampino in sei delle undici composizioni. Purtroppo per lei non nella title track, che è un altro highligh dell'opera.

A completare il quadro dei luoghi comuni degli artisti pop-country USA (rispetto ai quali sono totalmente d'accordo con Robb Flynn dei Machine Head), la Pickler è una convinta sostenitrice delle forze armate e se cercate in rete non faticherete a trovare sue dichiarazioni a favore del possesso di armi da fuoco. Se fate invece una ricerca per immagini, vi troverete curiosamente di fronte due immagini distinte dell'artista: con look da femme fatale e coi capelli rasati a zero e abiti anonimi. Chissà se il nuovo lavoro, The woman I am, in uscita a giorni svelerà qualcosa di più sull'identità musicale ed caratteriale di questo personaggio. 

Per quello che mi riguarda, a sto giro ci posso anche stare.





sabato 26 ottobre 2013

Chronicles 35

Mi avevano detto che alla lunga l'uso massiccio del telefonino poteva essere pericoloso, ma non pensavo di arrivare alla deflagrazione delle cuffiette! 


(In realtà quello che vedete è il risultato di un esperimento scientifico: provate a chiudere il filo delle cuffie nella portiera dell'auto, dalla parte del jack. Guidate poi per svariate chilometri con gli auricolari che grattano l'asfalto della strada e giunti a destinazione questo sarà il raccapricciante spettacolo che vi troverete davanti)

venerdì 25 ottobre 2013

80 minuti di Alter Bridge

Gruppo che ho un pò trascurato, nonostante le pressanti raccomandazioni dei miei due pards di blog Jumbolo e Filippo. La (super) band, capitanata dallo straordinario singer Myles Kennedy e dall'aceman Mark Tremonti, ha consolidato la propria leadership in ambito hard-rock con quattro lavori, pubblicati con parsimonia nell'arco di una decina d'anni. 
L'ultima fatica, Fortress, è fresca di stampa.
Here we go (again):

1) Cry of Achilles
2) Open your eyes
3) Rise today
4) In loving memory
5) Slip the void
6) Isolation
7) Watch over you
8) Addicted to pain
9) Find the real
10) Ties that binds
11) I know it hurts
12) Come to life
13) Brand new start
14)Broken wings
15) Before tomorrow comes
16) Ghost of days gone by
17) Blackbird (live in Wembley)

mercoledì 23 ottobre 2013

Movielist #2, 1978/1987

Riprendo da dove avevo lasciato la classifica dei film della vita, ricordando che la scelta cade su un titolo per ogni anno, dalla mia nascita ad oggi.
Con il decennio 1978/1987 entriamo in un periodo nel quale il cinema ho cominciato a viverlo "in diretta", con film che sceglievo di andare a vedere su grande schermo, da solo o con gli amici. Un periodo nel quale il breve contenitore "appuntamento al cinema", trasmesso dalla RAI per conto dell'Anica - Agis, sebbene servisse da riempitivo tra un programma di seconda serata e l'altro, mi spalancava le porte di un mondo cinematografico, imperdibile, bellissimo, vasto e tutto da esplorare. Giuro che ancora oggi, nel vedere alcuni film usciti in quel periodo, mi tornano in mente quei brevi lanci televisivi.

1978
Avessi votato in tempo reale, avrei detto Superman, primo film a grosso budget sui super-eroi (non faceva testo che io leggessi i Marvel e che l'uomo d'acciaio fosse il personaggio di punta della DC). Se avessi invece espresso la preferenza ai tempi delle superiori, quando con Il cacciatore tiravo regolarmente l'una di notte, bestemmiando ad ogni pausa pubblicitaria di Rete4, solo per arrivare alla scena della roulette russa,  non avrei avuto dubbi ad assegnare al film di Cimino la palma di migliore. Oggi, a mente fredda, scarto anche Animal house e dico Fuga di mezzanotte di Alan Parker: agghiacciante spirale sulla disumanizzazione di una persona.

1979
C'è Alien e c'è Manhattan. Non posso proprio esimermi dal votare Apocalypse now, sul quale credo sia superflua ogni sinossi. Vorrei invece spezzare una lancia a favore di uno dei film migliori di Renato Pozzetto (con una Fenech da urlo e un Massimo Ranieri indimenticabile): La patata bollente. In un cinema nostrano che prendeva in considerazione i gay solo per restituire al pubblico caricature ridicole, Steno poneva nientedimeno che il problema della loro accettazione in ambito P.C.I, il (mio) partito della tutela dei più deboli, che però sugli omosessuali era ancora piuttosto indietro. Certo, è una commedia e ha più di un limite, ma quanto ha precorso i tempi!
Come dite? Ho lasciato più spazio ad un escluso rispetto al premiato? Deh, non sono proprio capace...

1980
I Blues Brothers, non ho scelta. E sì che in gioco c'erano robette tipo Shining; Toro scatenato  e Vestito per uccidere...

1981
E' l'anno delle ultime commedie dignitose di Sordi (Il marchese del grillo) e Villaggio (Fracchia la belva umana), mentre in ambito americano lasciano il segno Fuga per la vittoria; Blow out; Un lupo mannaro americano a Londra e 1997 Fuga da New York. Ma io ricordo ancora i cinema (di Milano) che venivano giù con l'esordio di Trosi: Ricomincio da tre.

1982
Blade Runner

1983
Ancora Woody Allen, ma non posso proprio esimermi: Zelig è la genialità al potere.  Giusto per non nascondervi niente, in una sala minuscola del mio paese riuscì anche a vedere, da solo (che gli amici si vergognavano) e comunque tenendo le mani ben in vista, La chiave.

1984
Ribadisco un concetto già espresso: le mie scelte cadono sui film che hanno per me un valore non esclusivamente artistico ma anche, anzi sopratutto, personale. Quelli legati magari ad eventi particolari, significativi o semplicemente a ricordi persistenti. Per questo, nell'anno di uscita di C'era una volta in America (film che per inciso possiedo nell'edizione estesa e che ho visto non so neanche io quante volte: l'ultima di sicuro l'altra sera), la mia preferenza va a Strade di fuoco, lavoro marginale di Walter Hill con Diane Lane, Michael Parè e un diabolico Willem Dafoe, in quanto responsabile della mia folgorazione per la musica rock. Non esagero se affermo che, da questo punto di vista, c'è una mia vita prima di Streets of fire, e una dopo. A prescindere dalla qualità (non eccelsa, lo ammetto) dell'opera.



1985
Ho molto amato quel piccolo progetto che risponde al nome di Fuori orario e mi sono entusiasmato con Ritorno al futuro, ma se con l'amico Patrizio, una decina d'anni dopo, ho comprato e seppellito una bottiglia di Dom Perignon da centomila lire, lo dobbiamo esclusivamente a quel gioiellino che risponde al nome di Fandango.

1986
Daunbailò e Regalo di Natale le sorprese dell'anno. Ma il voto va a Platoon, spartiacque dell'ossessione del Vietnam che tornava prepotentemente nella memoria degli americani attraverso le sale cinematografiche.

1987
Full metal jacket. Ancora Vietnam (ma non solo). Si passa però da Oliver Stone a Kubrick. E, beh. Si vede.

continua...

lunedì 21 ottobre 2013

Arctic Monkeys, AM


Una delle ragioni per cui non mi considero un esperto musicale ma semplicemente un appassionato compulsivo, è che non posseggo una cassetta degli attrezzi adeguata ad affrontare ogni tipo di recensione. Prendiamo l'indie pop, per esempio. Per quanto mi sia sforzato di entrare nello spirito delle numerose new sensation delle band (perlopiù) inglesi che hanno affollato le pagine delle riviste musicali nell'ultimo decennio, proprio non riesco a far entrare questo genere nel mio radar, a parlarne disinvoltamente e di conseguenza a scriverne in maniera onesta. Dal mare nostrum di band che ho regolarmente ignorato si salvano però gli Arctic Monkeys (ai quali ho dedicato una delle mie playlist monografiche), che, da subito, con la loro proposta sono riusciti ad attraversare la mia coltre di ostinata indifferenza.

Il combo di Sheffield, nonostante la giovane età e la carriera relativamente breve (il debutto Whatever peolple sai I am, that's what I am not è del 2006), con questo AM (acronimo del nome della band) sono giunti al quinto album. E ci sono arrivati, a mio parere, in uno stato di forma e di maturazione artistica eccellente. Lo si capisce subito dall'uno - due piazzato in apertura con Do I wanna know e R U mine? dove la voce di Alex Turner e il brand del gruppo risultano, oltre che riconoscibilissimi, trascinanti e non autoreferenziali.
Nell'alchimia del sound Arctic Monkeys l'elemento vincente sta nel passare con disinvoltura dal funk al rhythm and blues, accarezzando la dance e il pop d'autore, il tutto mentre Turner passa agevolmente dal tono confidenziale al falsetto. Arabella e I want it all sono altri highlights  disseminati nella tracklist, anche se i pezzi che mi hanno letteralmente conquistato sono quelli preposti ad abbassare le battute, strategicamente piazzati a metà disco.
N° 1 party anthem è il primo. Non è facile, al giorno d'oggi scherzare coi Beatles e risultare credibili. Troppi i tentativi maldestri compiuti impunemente nel recente passato, nonostante ciò i ragazzi, sarà l'incoscienza o la sicurezza dei propri mezzi, si buttano nell'impresa e, manco a dirlo, portano a casa il risutato. Pezzo della madonna, la cui qualità viene comunque quasi raggiunta dal successivo Mad sounds (pezzo della madonna 2).
Va invece catalogata sotto la voce: suadente con ritmo Why'd you only call me when you're high? (bisognerebbe prima o poi dire qualcosa sulla genialità dei titoli che i quattro riescono a coniare), mentre le liriche di I wanna be yours, il lento (ancora una volta vincente) che chiude il lavoro, sono del poeta punk John Cooper Clark.

Ribadita la premessa iniziale sulla carenza dei miei requisiti specifici, un gran bel disco.

7,5/10

sabato 19 ottobre 2013

Chronicles 34

Certe volte prendi delle decisioni, delle iniziative di cui sai che ti pentirai, e infatti te ne penti un secondo dopo averle assunte. Cose anche piccole, intendiamoci, ma che influiranno in qualche misura sulla gestione del tuo tempo e delle tue risorse psicofisiche. Per essere esplicito: mi serviva proprio candidarmi,ed essere eletto per mancanza di concorrenti, a rappresentante di classe, con tutte le menate alle quali sto già cercando di sopravvivere? E allora perchè l'ho fatto? Quando lo capirò ve ne renderò edotti.

giovedì 17 ottobre 2013

Cattivissimo me 2



Tutta la famiglia attendeva con ansia il capitolo due di Cattivissimo me, uno dei film d'animazione più divertenti degli ultimi anni. Il sequel arriva sugli schermi italiani sull'onda dell'enorme successo registrato in patria, segno evidentemente che il pubblico americano si è divertito quanto noi con il debutto della Universal in questo genere cinematografico.
La storia parte a mio avviso da uno spunto più debole del precedente. Laddove infatti Gru era un magnifico villain che viveva nel segno del male, tanto nel quotidiano, commettendo abitudinariamente azioni spregevoli, quanto nei progetti a lungo termine, pianificando il furto della luna, il sequel ci restituisce il protagonista "pacificato" e buon padre di famiglia, che fa di tutto per non far mancare niente ai suoi pargoli (le tre orfanelle Margo, Edith e Agnes).
Gli autori compensano la prevedibilità  dell'incipit con un ottimo ritmo, nuovi personaggi, tra i quali la svampita agente segreto Lucy Wild, ma soprattutto con un ricorso massiccio ai minion, gli irresistibili ominidi gialli creati dallo stesso Gru e dallo scienziato pazzo Dr. Nefario che sono a tutti gli effetti l'arma vincente del brand (non mi stupirei se da qui a poco producessero uno spin-off solo per loro).
 
Non sto qui ad indicare una scena piuttosto che un'altra, vi garantisco che si ride molto e che il divertimento coinvolge trasversalmente grandi e piccini. Consigliatissimo.

martedì 15 ottobre 2013

Seasick Steve, Hubcap music



Ecco un altro bel personaggio che entra di diritto nel novero di quelli che sembrano usciti da un libro di Jim Thompson. 
Steve Gene Wold nasce nel 1941 a Oakland, California. La musica (attraverso l'influenza del padre pianista e di un meccanico che lavorava presso il garage del nonno, chitarrista) è probabilmente l'unica nota lieta di un'infanzia difficile (la separazione dei genitori quando ha quattro anni) e drammatica: a 13 anni è infatti costretto a scappare di casa per sfuggire agli abusi del patrigno. Vive così alla giornata tra il Tennessee e il Mississippi fino alla metà dei settanta. Riguardo alla sua esistenza durante quel periodo Steve dichiarerà: "Gli hobo sono persone che si muovono alla ricerca di lavoro; i vagabondi sono persone che si muovono ma non cercano lavoro, i barboni non si muovono e non lavorano. Io ho fatto parte di tutte e tre le categorie."
Ma dicevamo del potere salvifico della musica. I sessanta vedono Steve nel giro dei session men di ambito folk-blues, in una scena che lo porta ad esibirsi anche con Janis Joplin e Joni Mitchell. Negli ottanta si sposta a nord, vicino Seattle e conosce un imberbe Kurt Cobain, diventa ingegnere del suono e produttore (la sua firma su alcuni dischi dei Modest Mouse). Nei novanta si trasferisce a Parigi dove si guadagna da vivere come busker e quindi, nei primi anni zero, si trasferisce in Norvegia, dove, nel 2004, pubblica finalmente il suo primo album: Cheap. Evidentemente ci prende la mano, perché da allora e in meno di dieci anni, dà alle stampe altri cinque lavori, l'ultimo dei quali è, appunto, questo Hubcap music. Wold possiede anche un'altra peculiarità che lo differenzia da tutti gli altri: assembla e  costruisce infatti da sè le chitarre che utilizza. Per i fanatici dello strumento, ecco un elenco dettagliato delle sue creazioni.

Ma veniamo a Hubcap music, che è l'album con il quale ho scoperto questo artista. Nonostante io stia attraversando un periodo di scarsa affinità con il blues (genere che in passato mi ha dato tanto, ma che ultimamente non mi coinvolge), continuo ad imbattermi in artisti che di questo stile danno un interpretazione così personale (vedi Rachel Brooke qualche recensione fa) che non riesce a lasciarmi indifferente. Nel caso Seasick Steve le coordinate si muovono sugli accidentati terreni del desertico boogie-blues dei primi ZZ-Top (l'opener Down on the farm; Freedom road, Home), coniugati con un approccio lo-fi ma senza dimenticare la lezione del blues elettrico di John Lee Hooker (su tutte Self sufficient man). 

Sotto la voce "amici", accorrono a dare una mano artisti che pescano nello stesso mondo musicale di Steve: oltre a John Paul Jones che mette la firma, non solo con il basso ma anche con mandolino, ukulele e hammond, su quasi tutta la tracklist,  compaiono anche Jack White sul blues slabbrato dal tono confidenziale The way I do; Elizabeth Cook sull'ottimo lento country Purple shadows, e la slide guitar di Luther Dickinson (North Mississippi Allstars) che impreziosisce la ruvida e polverosa Home.
A sparigliare le coordinate musicali dell'opera Keep on keepin' on, sulla quale il nostro si cimenta in qualcosa di molto simile ad un rap, e il soul bianco Coast is clear, che chiude il tutto con la sacralità che solo l'organo hammond sa conferire ai pezzi.


Normalmente il genere musicale del blues opera una selezione naturale: i suoi estimatori comprano a scatola chiusa, i detrattori evitano come la peste. Hubcap Music potrebbe essere la classica opera di un'artista fuori dagli schemi che si apre a quanti, semplicemente, amano la musica onesta suonata con e per passione. O almeno questo è il mio auspicio.

7,5/10

sabato 12 ottobre 2013

Chronicles 33

C'erano una volta le strade provinciali Rivoltana e Cassanese. Congestionate, insufficienti, inadeguate a sostenere la mole di traffico che quotidianamente ci si riversava, giungendo dalle province di Bergamo, Brescia e Cremona in direzione Milano, ma almeno prevedibili nei loro diversi umori giornalieri. Oggi quelle non sono più strade: a causa dei lavori per la Bre.Be.Mi (che si protrarranno almeno fino alla prossima primavera) si sono trasformate in un enorme cantiere che come un cancro ha fatto metastasi, togliendo agli automobilisti anche la via di fuga delle strade secondarie. L'unica alternativa a fare le radici in coda è allungare il percorso di una decina di chilometri al giorno. Se pensate che stia esagerando provate l'esperienza dell'imbottigliamento alle 6.02 del mattino, poi ne riparliamo. Ah! Se i cattivi pensieri potessero uccidere...


giovedì 10 ottobre 2013

Phil Chevron, 17 giugno 1957 / 8 ottobre 2013

E' stata solo un'illusione  a breve termine la notizia del recesso della malattia di Phil Chevron, storico chitarrista dei Pogues. Qualche mese fa infatti il sito del gruppo riportava un nuovo, tremendo, bollettino medico. Il cancro era tornato in una forma letale. Giusto il tempo di salutare gli artisti a lui più vicini attraverso un concerto benefico che si è realizzato a fine agosto, e l'8 di ottobre,a 56 anni,  Phil si è spento a Dublino. 

La chitarra di Chevron è stata fondamentale per lo sviluppo del sound dei Pogues, Joe Strummer (che nel 1991 ha sostituito un impresentabile Shane MacGowan nel tour della band) ebbe a dire che lo stile di Phil era unico, i suoi pattern, i tempi che riusciva a tenere erano inarrivabili per molti chitarristi più noti e quotati.
Prima dei Pogues, Chevron aveva suonato in un altro gruppo fondamentale della scena punk irlandese: i Radiators from space, recentemente ricomposti a margine dell'attività con il gruppo di combat folk.

Nonostante la notizia fosse nell'aria da mesi (le foto più recenti ci mostrano un uomo consumato dalla malattia), sono colto da un grande sconforto. Onestamente spero che il mini tour natalizio che i Pogues hanno in cantiere per quest'anno (quattro date tra il 15 e il 20 dicembre)  concluda definitivamente l'avventura del gruppo. 
E vi garantisco che mi costa dolore anche solo pensarlo.


mercoledì 9 ottobre 2013

Movielist #1 (1968/1977)

Ormai lo sanno anche i sassi: adoro compilare classifiche e fare playlist. Non potevo dunque resistere alla tentazione di rispondere all'invito de Il cinema spiccio, già accolto, tra gli altri, dai blog Montecristo e viaggiando (meno), di compilare una lista di titoli di film scegliendone uno per ogni anno, a partire dal proprio anno di nascita. In considerazione della mia età l'impresa è di quelle impegnative, ma io l'ho trattata con leggerezza, cercando di selezionare non necessariamente le migliori pellicole dell'anno, ma piuttosto quelle che hanno lasciato un qualche segno nella mia vita. La ricerca, vi garantisco, porta via del tempo e pertanto sono obbligato a dividerla in più parti.
Si inizia con i primi dieci anni (fonti di ricerca Wikipedia e MyMovies).
 
1968
E' l'anno di masterpiece come 2001 Odissea nello spazio; C'era una volta il west; Il laureato e La notte dei morti viventi. Per me, non fosse altro per il numero di volte che l'ho guardato da bambino sulla RAI, il film dell'anno non può che essere Il medico della mutua.
 
1969
Prendi i soldi e scappa. Nel mazzo dei miei preferiti di Allen.
 
1970
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Da bambino la spietata maschera di Gian Maria Volontè m'incuteva disagio e paura. Rivedendolo da adulto la mia percezione non è cambiata molto.
 
1971
Il braccio violento della legge, film che ha tracciato un solco nel quale si sono adagiati decenni di polizieschi a venire. Scelta sofferta vista l'uscita di altre pellicole che adoro, come 4 mosche di velluto grigio, Arancia meccanica e La classe operaia va in paradiso.
 
1972
Il padrino. come recita lo strillo sui comics Marvel d'annata: nuff said!
 
1973
E' l'anno di Papillon e Pat Garret & Billy the kid. Il mio voto va però a Serpico.
 
1974
Il padrino parte II. Vedi sopra
 
1975
Tra Barry Lyndon, Nashville, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Fantozzi, non posso non votare Profondo Rosso, grazie al quale ho avuto incubi per anni.
 
1976
Il secondo tragico Fantozzi. Lo so, è l'anno di Taxi driver e de Il maratoneta. Ma per l'impatto devastante che ha avuto su società, cultura e immaginario collettivo non posso evitare di citare almeno un film della saga di Paolo Villaggio.
 
1977
Non sono mai stato un grande fan di Guerre Stellari. Per me, nell'anno della meravigliosa infezione punk, il premio va alla celebrazione della disco: La febbre del sabato sera.
 
continua...

lunedì 7 ottobre 2013

Carcass, Surgical steel


Una band fondamentale, un marchio di fabbrica che ha fatto scuola. Un sound inconfondibile che ha sviluppato autorevolmente il death e ha contribuito a porre le basi del grind (con tutti i distinguo e le sfumature del caso), riuscendo sempre a rimanere fedele alla matrice heavy-metal di provenienza.
I Carcass tornano, a sette anni di distanza dall'ultimo disco pubblicato, che era Swansong del 1996 (anche se personalmente ero fermo al masterpiece Heartwork), con un solo superstite della formazione originale: Bill Steer alla lead guitar, coadiuvato da Jeff Walker alla voce e al basso che del combo è comunque un membro storico (e che, per la cronaca, nel 2004 aveva rilasciato a nome Jeff Walker und Die Fluffers un disco di cover di pezzi country). A completare l'organico Ben Ash alla seconda chitarra e Daniel Wilding alle pelli.

L'album esce per la Nucler Blast, senza grandi proclami pubblicitari al di fuori della scena metal ma (o forse proprio per questo) colpisce come un tuono nella notte. La band inglese più che raccordarsi con i suoi esordi (l'epocale trittico Reek of putrefaction del 1988; Symphonies of sickness del 1989 e Necroticism - Descanting the insalubrious del 1991) ricomincia, a partire dal tema circolare della copertina del cd, laddove era finito Heartwork. Cioè da un metal-grind brutale ma sensato, impreziosito questa volta da coerenti richiami al sound classico della nwobhm. Richiami posti immediatamente in apertura con il breve intro strumentale 1985 (a quanto pare un pattern che Steer aveva inciso quell'anno per poi riporlo in un cassetto). 
Dopo di che si scatena l'inferno, le cui porte sono rappresentate da Trasher's abbattoir, ancora oggi, a distanza di diverse settimane di rotazione intensa su tutti i miei dispositivi di ascolto, il mio pezzo preferito del disco. Gli tiene testa il successivo Cadaver pouch conveyor system, caratterizzato da un giro di chitarra molto eighties che si coniuga alla perfezione con la violenza e l'ottusità tipicamente grind. Le due tracce, insieme, costituiscono un uno-due che nemmeno Tyson dei tempi migliori. 
Non è fuori luogo il suono della chitarra dei Metallica degli esordi, splendidamente evocato in Noncompliance to ASTM F 899 - 12 Standard, altro highlight di un lavoro senza flessioni.
Ad ogni modo, per semplificare il concetto, dalla traccia numero due in avanti, al netto di qualche improvviso rallentamento (come all'interno di A congealed clot of blood ) non c'è più tregua (è illusoria quella che apre Mount of execution, la lunga suite conclusiva) per l'ascoltatore che però, e parlo per me, a differenza di altri lavori nei quali la violenza del suono diventa insostenibile, riesce comunque ad arrivare fino in fondo perchè, e questo a mio giudizio è l'elemento che distingue i grandi dalla manovalanza, i Carcass riescono sempre a conciliare brutalità, melodia e senso compiuto dei composizioni.

Posto che non ritengo 13 dei Black Sabbath un disco metal ma un album rock a tutto tondo, sarà difficile che qualcuno possa rubare a Surgical Steel e ai Carcass l'onorificenza di miglior titolo metal dell'anno. Certamente non lo farà Bottle of smoke.

9/10


domenica 6 ottobre 2013

Chronicles 32

My best was never good enough

"Every cloud has a silver lining, every dog has his day." 
She said "Now don't stay nothin' 
If you don't have something nice to say 
The tough now they get going when the going gets tough." 
But for you my best was never good enough 

"Now don't try for a home run baby 
If you can get the job done with a hit 
Remember a quitter never wins 
And a winner never quits 
The sun don't shine on a sleepin' dog's ass." 
And all the rest of that stuff 
But for you my best was never good enough 

"If God gives you nothin' but lemons then you make some lemonade 
The early bird catches the fuckin' worm, Rome wasn't built in a day 
Now life's like a box of chocolates 
You never know what you're going to get 
Stupid is as stupid does" and all the rest of that shit 
Come on pretty baby call my bluff 
'Cause for you my best was never good enough


mercoledì 2 ottobre 2013

Cena tra amici

 
 
E voi come reagireste se vostro cognato, ex scapolo impenitente nonchè amante della bella vita ed ora marito felice e futuro papà, vi comunicasse che ha deciso chiamare Adolf il futuro nascituro? Beh, se foste nei panni di Pierre, tipico professore universitario radical chic, passereste in un attimo dallo sbigottimento alla collera, constatando che il parente acquisito non intende retrocedere dalla sua idea.
E' questo il geniale incipit di Cena tra amici (Le Prènom, il titolo originale). Fare incontrare a cena un gruppo di persone legate da rapporti di parentela e di amicizia sin dall'infanzia e, partendo da uno scherzo ben congeniato, far deflagrare rancori,insoddisfazioni e frustrazioni che ardevano sotto la cenere in attesa solo del giusto rivolo di vento per attizzarsi.
Perciò, quando, fuori tempo massimo, il simpatico Vincent rivela la burla della scelta del nome è ormai troppo tardi. Sua moglie Anna, ignara dello scherzo del marito, reagisce acida ad un commento di Pierre e le tessere del domino delle frasi e dei comportamenti di circostanza vengono inesorabilmente giù una ad una.
 
Il film è chiaramente tratto da una commedia tetrale e altrettanto ovviamente (non fosse altro per una questione di tempi) può ricordare il recente Carnage. Nella fase iniziale è sicuramente più divertente del film di Polanski, mentre lo pareggia nella seconda per il livello di amarezza che riesce ad esprimere e per come mette a nudo le molte ipocrisie insite nei nostri comportamenti.
Da vedere.