lunedì 13 maggio 2013

Big Country, The journey


Avendolo già ampiamente fatto in passato (qui tutti i post), vorrei evitare di introdurre il nuovo album dei Big Country soffermandomi a lungo su Stuart Adamson, storico leader della band, e alla sua tragica e prematura fine. La ragione è presto detta e non ha a che vedere con il cinismo: la band che oggi, A.D. 2013, rilascia un nuovo lavoro dal titolo The Journey , a dodici anni di distanza dall'ultima fatica in studio, è, a tutti gli effetti (nei componenti e nella direzione musicale), un altra cosa rispetto a quella che trent'anni orsono pubblicava l'acclamato The crossing

Innanzitutto i Big Country odierni sono curiosamente (ma forse neanche tanto) diventati una sorta di all-star band di vecchie glorie del rock delle province dell'impero (britannico) anni ottanta. Sì perchè dietro al microfono si è sistemato lo scapigliatissimo leader degli Alarm Mike Peters, alla chitarra e alla batteria stanno Bruce Watson e Mark Brzezicki, unici superstiti degli originali BC mentre al basso troviamo Derek Forbes, con i Simple Minds degli esordi. Fin troppo semplice, davanti a  credenziali di questo tipo, ipotizzare in anticipo il tipo di sound che la band ha prodotto, registrando il disco nell'isolamento (da telefono e web) di un bunker militare risalente ai tempi della guerra fredda, situato dalle parti di Wrexam, in Galles. Mi riferisco ovviamente al ritorno del cosiddetto scottish - rock (anche se per la verità gli Alarm di Peters erano gallesi),  genere che aveva nelle sue corde elementi quali drammaticità, retorica, orgoglio, tensione, simbiosi con il territorio, enfasi ed anthems. Genere il cui acme durò alla fine poco più di un lustro, per poi dissolversi causa evidente incapacità dei suoi protagonisti di evolversi e/o cambiare marcia.

Ecco, The journey la considero come la rivincita di tutti quegli eroi per un giorno, delle rughe che oggi gli attraversano il viso, delle smorfie di disappunto che gli sfuggono ogni qual volta al pub di fiducia passano le canzoni degli U2, partiti su di un piano simile al loro e oggi mega stars milionarie. 
Ma The Journey, nonostante le premesse, e nonostante arrivi fuori tempo massimo,  riesce comunque a non essere un disco patetico, loffio o disperato. E il merito di questo va attribuito senza dubbio a Mike Peters, autore della maggior parte dei testi della track list, che infonde nel songwriting e nell'interpretazione dei brani l'ispirazione dei tempi migliori, arrivando a canzoni che non avrebbero sfigurato affatto in Declaration, Strenght o Eye of the hurricane, cioè i dischi del periodo migliore degli Alarm.
Essì perchè  questo album, nel complesso, risulta più Alarm oriented rispetto al brand della ragione sociale che sta in copertina. Nonostante l'enfatica opener In a broken promise land provi (anche bene) a raccordarsi con il sound di Adamson infatti, già dalla successiva title-track risulta evidente l'imprinting del nuovo frontman.

"Don't be afraid / to make this journey" canta Peters nella canzone che dà il titolo all'album e non si capisce se si tratti di un incoraggiamento rivolto agli ascoltatori o a questa sua seconda vita artistica. Al netto delle pippe mentali il pezzo risulta comunque molto coinvolgente e centrato a livello di liriche. 
Le tracce che pagano maggiormente tributo allo stile che fu dei Big Country sono invece sostanzialmente due: After the flood e Return, molto suggestive e collocabili se non dentro il periodo d'oro di The crossing o Steeltown, sicuramente in quello di argento/bronzo di The seer e Peace in our timeIn altri momenti (nell'intensa Angel and promises e in Another country) emerge nell'impostazione di Mike Peters anche una certa affinità con il cantato di Bono Vox, senza che però l'analogia risulti troppo stucchevole o derivativa.

Ho ascoltato molto The journey in questo periodo, anzi si può dire che io abbia ascoltato solo The journey durante queste ultime due settimane, sentendolo crescere giorno dopo giorno mentre cercavo tra i suoi testi un qualche riferimento alla figura di Adamson. La mia ricerca non è stata nè lunga nè infruttuosa, visto che Peters, nell'epilogo di Angel and promises, sceglie di riprendere Chance (brano presente nel capolavoro The crossing), attraverso i suoi versi più desolanti( "Oh Lord Where did the feeling go? / Oh Lord, i never felt so low"), riuscendo nell'obiettivo di conferire il giusto tributo al vecchio leader della band e toccare il mio vecchio cuore di burro.

In definitiva ritengo The journey un buon (a tratti ottimo) disco: nervoso, tirato, elettrico, molto chitarristico ma capace anche di ariose ballate (la migliore delle quali è certamente Hurt), che mi riconcilia con un sotto-genere non essenziale, ma verso il quale, anche per ragioni anagrafiche, porto il giusto rispetto.  Per questo troverei ingiusto fare paragoni con i già citati masterpiece dei Big Country (The crossing, 1983 e Steeltown, 1984), visto che la band, con Adamson ancora al timone, aveva già da tempo abbandonato certe sonorità allontanandosi, inevitabilmente, dai suoi momenti ispirativi migliori (penso ad esempio agli ultimi lavori tipo Why the long face o Driving to Damascus, rispetto ai quali The journey se la gioca a testa alta).
Quindi sì, per me pollice in alto. 



Don't be afraid to make this journey.

7,5



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