lunedì 15 aprile 2013

Hatebreed, The divinity of purpose (2013)

File:The Divinity of Purpose.jpg

Gli Hatebreed, hardcore band del Connecticut, arriva al settimo album in tre lustri di carriera cercando di tornare al sound più cattivo, e appunto hardcore, che aveva visto il combo mietere consensi unanimi nel 2002 con l'acclamato Perseverance. Lo fa lasciandosi alle spalle l'ammorbidimento dei suoni legato  all'ultima release (omonima, ne avevo brevemente parlato qui) del 2009 nella quale il gruppo capitanato dal singer James Jasta aveva tentato di riconciliarsi con le radici dell'heavy metal classico.

L'obiettivo di tornare a raccordarsi con i fan della prima ora dovrebbe essere oggi raggiunto, grazie ad un lavoro brutale quanto basta, che permette cioè anche ad un ascoltatore onnivoro come me di distinguere una canzone dall'altra ed identificarne melodia, strofa e refrain (quando c'è). The divinity of purpose si muove ovviamente non solo nel solco storico degli Hatebreed, ma anche in quello dei più noti precursori del genere hardcore/metalcore/thrash metal: Black Flag, Pantera e Sepultura.
Il disco si apre con Put it to the torch, uno dei pezzi più convincenti del lotto (scelto anche per veicolare l'opera come singolo e video ) che chiarisce subito le idee di Jasta e soci: pestare ottusamente duro sugli strumenti e urlare nel microfono fino a fonderlo. E cosi via a rotta di collo fino all'ingannevole rallentamento in stile crossover dell'ottima title track in odore di Suicidal Tendencies (a proposito, sono tornati anche loro! Spero di avere tempo di recensirli prima o dopo), incastrata in una lodevole tripletta aperta da Dead man breathing e Nothing scares me.

Insomma, gli Hatebreed non brilleranno per l'originalità della loro proposta musicale ma la lealtà verso un genere ormai storico come l'hardcore metal, è indiscussa. 
Sapete cosa aspettarvi dunque, sta a voi decidere se vi interessa.

7/10


Nessun commento:

Posta un commento