Dopo una prima parte più sbilanciata sul canone horror, che si conclude con la carneficina nel quarto episodio, The walking dead vira improvvisamente sull'introspettiva. Il gruppo di superstiti fa il bilancio di un improvviso attacco degli zombie al loro campo, ognuno piange i suoi morti, qualcuno aiutando gli altri a “trattare” i cadaveri in modo che non risorgano, altri invece vegliando fino alle estreme conseguenze un familiare contagiato.
Dopo Michael Rooker, nelle ultime due puntate della mini serie esordisce un altro volto noto del cinema: Noah Emmerich nei panni di uno scienziato barricato all'interno di un modernissimo centro di ricerca nel quale il gruppo di fuggiaschi cerca rifugio. Molto toccante l'epilogo del quinto episodio, in bilico tra disperazione e sollievo, e anche l'amara conclusione della puntata finale.
C'è qualcosa di più abusato e sterile nello sviluppo di un film sugli zombie? No, in teoria. In pratica invece gli autori di questa serie riescono nell'operazione di colpire nel segno, spostando progressivamente l'attenzione dello spettatore dall'azione splatter fine a se stessa alla psicologia dei personaggi, traguardandoci nell'immedimazione con i protagonisti, con le loro terribili angosce e le loro flebili speranze. Il tutto senza dire praticamente nulla sulle cause del flagello apocalittico che rischia di estinguere l'umanità.
The walking dead è riuscita nell'impresa di emergere come inaspettata e tostissima outsider nella galassia delle produzioni americane, imponendo all'attenzione dei grandi network la AMC, emittente fuori dal grande giro di tv.
Si attendono indicazioni sul lancio della seconda stagione.
Per ora comunque, thumbs up!
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