lunedì 15 gennaio 2024

Dirty Honey, Can't find the brakes (2023)



I Dirty Honey si formano nel 2017 a Los Angeles ed immediatamente fanno convergere su di sè l'attenzione del pubblico e della critica, al punto che il loro EP di esordio (st) fa subito il botto, portando al numero uno il singolo When I'm gone
Can't find the brakes è il loro secondo full-lenght, e fissa ulteriormente la cifra stilistica della band, che non propone nulla di nuovo ma lo fa magnificamente. Muovendosi sullo spartito tracciato da antesignani vicini e lontani come Aerosmith, The Black Crowes, Gov't Mule e Lynyrd Skyrd, i Dirty Honey riempiono di contenuti una proposta che comunque resta pregna di sleaze. Mi si dirà che si tratta di ingredienti mandati a memoria, in quest'epoca di retromania, da innumerevoli chef/artisti, ma, e qui sta il plus, solo per una ristretta cerchia di musicisti creare melodie, raccordi e refrain infallibili è facile come respirare.

Can't find the brakes (titolo strepitoso, ca va san dire), consta di undici tracce e tendenzialmente puoi partire da qualunque di essa e venirne catturato all'istante, per come è incapace di contenere filler. Tanto vale allora seguire la tracklist così come è stata composta: Don't put out the fire è la migliore opener possibile, Won't take me alive è il pezzo che gli Aerosmith vorrebbero saper ancora fare, e via via Dirty mind, la prima ballata Coming home, la title track. 
E' proprio inutile impostare la recensione su un track to track visto il valore complessivo dell'opera. Un album per cui forse trova un senso l'etichetta abusata di classic rock fuori dal tempo.

Solo qualche anno fa sarei impazzito per un disco così (e magari l'8 marzo sarei stato in prima fila all'Alcatraz per vederli). 

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