lunedì 30 ottobre 2023

Dogman (2023)



Durante un controllo stradale notturno la polizia ferma Douglas, una drag queen che guida un furgone stipato di cani. Una volta in centrale, Doug, che scopriamo avere una disabilità fisica che lo obbliga sulla sedie a rotelle, comincia a raccontare alla psicoterapeuta assegnatagli la sua storia. Figlio di famiglia disfunzionale, padre e fratello violenti maniaci religiosi e madre che si salva da quello schifo abbandonandolo, dopo che loro lo chiudono nel recinto dei cani. Quella condizione disumana creerà un'empatia superiore tra il ragazzino e i cani.


Una nuova uscita di Luc Besson non è mai banale o ordinaria e, anche nei film magari meno riusciti, si colgono sempre degli elementi di assoluto valore cinematografico. Questo vale anche per Dogman (il regista ha chiesto a Garrone il permesso di utilizzare il medesimo titolo del film italiano di cinque anni fa), anzi se lo chiedi a me, quest'ultima opera ha decisamente più luci che ombre.
Partiamo da una mia personalissima chiave di lettura, senza la quale, assistendo alle imprese dei cani di Doug, si rischiano impietose analogie con certi film live action Disney anni ottanta. Perchè per Besson era così importante poter usare quel titolo? Perchè laddove Dogman, nel caso di Garrone, era da intendere come l'uomo dei cani, quindi dog-sitter/tolettatore, nella pellicola del francese il significato è da leggere come quello storicamente assegnato ai  super-eroi (con super problemi) classici, alla stregua dunque di Spider-Man, Ant-Man e via discorrendo.

Sono inequivocabilmente mutuate dal mondo supererositico le "origini" dell'eroe (o del villain), che prendono sempre il via da un evento traumatico che dona al personaggio, assieme al potere, una condanna, che può essere morale (la morte dei congiunti per Bat-Man o Spider-Man) o fisico (la cecità di Devil, la deformità di Hulk). 
E cosa succede a Doug? Costretto a vivere per anni in simbiosi con i cani, difendendoli come farebbe un capo branco, condividendo con loro il poco cibo, scaldandosi con il calore dei loro corpi, l'adolescente sviluppa con gli animali una connessione totale, una comunicazione quasi telepatica, per la quale basta uno sguardo o una parola per farli agire come soldati.

Senza questa premessa sovrannaturale temo venga a cadere la sospensione dell'incredulità, a danno del giudizio critico sull'opera. E comunque, anche al netto della mia (contestabile) lettura, credo non possa non essere universale il plauso alla prova attoriale del one man show del film, un Caleb Landry Jones semplicemente spettacolare, che come un magnete cattura su di sè l'attenzione dal primo momento all'ultimo in cui appare in scena. 
Un personaggio dolente, ferito dalla vita, rassegnato al suo fato, che trova asilo solo tra altri reietti come lui (le drag queen di un teatro), gli unici ad accettarlo senza remore. Pur avendo Landry Jones al suo attivo una corposa filmografia, trova qui l'interpretazione della vita, quella per cui qualunque (bravo) attore darebbe un braccio, e la coglie magistralmente.

Insomma, un favola noir da vedere.

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