La vita, o meglio, le tante vite dalla fanciullezza all'età adulta, di Jack Dillon, americano del Maryland cui le circostanze imporranno di usare i suoi molteplici talenti per sopravvivere ad un periodo tra i più complicati della storia americana: quello a cavallo delle due guerre mondiali.
Da sempre appassionato di letteratura noir classica, quella cioè che copre l'orizzonte temporale tra gli anni trenta e la fine dei cinquanta, non ho mai avuto dubbi su quale fosse il mio scrittore americano preferito. Non il più celebrato, Chandler, e nemmeno Spillane o Hammett, bensì James Cain, i cui romanzi ho sempre trovato più disperati, realistici, e i personaggi senza speranza alcuna di redenzione, rispetto a quelli degli altri. Molti dei suoi titoli sono diventati anche altrettanto imperdibili film noir, tra i più famosi Il postino suona sempre due volte e La morte paga doppio. Ma che Cain fosse uno scrittore ed un intellettuale più profondo, che non si accontentava dello stretto perimetro di un genere l'avevo intuito già con Serenata (1937), dove tratta il tema dell'omosessualità con inaspettato rispetto e modernità.
Dentro la minuziosa descrizione della vita da homeless di Jack c'è probabilmente la parte più cruda del libro, quella che maggiormente si allontana dalla definizione di noir. La spiegazione di come persone comuni discendano sempre più nella spirale della povertà, della fame e quindi della disperazione che li conduce prima ad accettare qualunque impiego e poi a delinquere è al tempo stesso sconvolgente ed estremamente naturale, realistica. Anche perchè quando dipinge uno scenario, Cain non si limita ad abbozzarlo, ma a documentarlo fino al più oscuro tecnicismo, come nel caso della parte sull'estrazione petrolifera, il funzionamento dei pozzi e le annesse speculazioni delle banche e delle società finanziarie.
Jack Dillon, come detto nella sinossi, vive molte vite dentro questo romanzo: cantante, atleta di football americano, petroliere, imprenditore alimentare. In quasi ognuna di queste la sua irrequietudine, il suo disagio, la sua costante insoddisfazione lo spingono a rovinare tutto e ripartire da capo e anche quando non lo vorrebbe, chi gli sta vicino intuisce la sua infelicità e decide per lui.
Ai miei occhi, Jack Dillon è dunque la metafora dell'America, the land of plenty, al tempo stesso vittima e carnefice, che promette tanto ma mantiene poco, e quando lo fa chiede un prezzo non sempre sostenibile. Tuttavia Dillon è anche la falena del titolo, sia dal punto di vista metaforico, il raggiungimento di una posizione sociale rispettabile, agiata, che sembra leggere ogni volta il bluff del protagonista e respingerlo come la lampadina incandescente fa con gli insetti, che da quello reale, con Jack che a un certo punto va a tanto così da un fuoco indomabile, un calore infernale che potrebbe incenerirlo, solo per riprendersi onore, dignità e posto nel mondo.
Chissà se Cain non avesse in mente altro e invece si sia dovuto piegare alle logiche commerciali imposte degli editori.
A me il finale non è dispiaciuto, forse perché mi aspettavo la tragedia come negli altri libri di Cain. Concordo sulla grandezza dell’autore. Bella recensione.
RispondiEliminaPerò del finale ho apprezzato il rapporto con il padre e la sorta di autobiografia che scrive apposta per lui.
RispondiEliminaGrazie per il commento!