giovedì 10 febbraio 2022

KK's Priest, Sermons of the sinner (2021)

 


Una decina di anni dopo l'uscita dai Judas Priest (formazione con la quale era dall'esordio Rocka-Rolla del 1974) e l'inevitabile codazzo di carte bollate quando la band oppose un rifiuto alla sua richiesta di rientrare nei ranghi, KK Downing esordisce settantenne con un progetto a suo nome. Nel farlo pesca, o, come vedremo, ci prova, a piene mani da musicisti che dalla formazione di Birmingham sono transitati. Per cui alla voce troviamo l'affidabile Tim Ripper Owens (nei JP per un paio di album nella seconda metà dei novanta, all'epoca dell'uscita di Rob Halford), mentre alla batteria la scelta iniziale era caduta su Les Binks (dietro le pelli per gli epici Stained class, Killing machine e il tour da cui è stato estrapolato lo strepitoso documento live Unleash in the East), per poi dover ripiegare su Sean Elg (Nihilist, Cage) a causa di problemi di salute del vecchio Judas. 
Alla basso e alla seconda chitarra invece musicisti fuori dal giro JP, anche se in qualche modo un collegamento con i Preti di Giuda persiste, avendo la seconda chitarra A.J. Mills militato in una band, Hostile, che vedeva tra i componenti il figlio di Ian Hill, storico bassista proprio della band di British steel.

Espletate le doverose premesse, passiamo al disco. 
In un'epoca di prepotente ritorno al sound dei primi ottanta, chiamato senza troppa originalità New Wave of Traditional Heavy Metal, con centinaia di nuove band che tentano tra alterne fortune di rifarsi a quella golden age, ci sta che chi quel suono l'ha forgiato (a detta di molti, e io condivido, furono i Judas Priest e non i Black Sabbath ad inventare l'heavy metal - pensate solo al ruolo della doppia chitarra - ) reclami un suo spazio. 
Sermons of the sinner vive quindi delle luci e delle ombre di un'operazione revivalista. Il tiro di alcuni pezzi è indubbiamente buono, come per il trittico d'apertura (dopo una breve introduzione parlata) Hellfire thunderbolt, Sermons of the sinner e Sacerodte y diablo, nel quale, a differenza di altri pareri recuperati in giro, a me non dispiacciono gli acuti di Owens, che trovo congrui alla cifra stilistica proposta. A livello di temi trattati dalle liriche si va da un oscuro occultismo ad un orgoglioso senso di appartenenza metallaro di stampo manowariano (Metal through and through, Brothers of the road, Wild and free). Anche stilisticamente emergono analogie con i Manowar oltre ovviamente alle immancabili assonanze con il gruppo madre (culminate nella conclusiva Return of the sentinel, che riprende The sentinel da Defenders of the faith, disco del 1984). I KK's Priest insomma girano bene, grazie alla potente sezione ritmica e alle sapienti cuciture chitarristiche, mentre risultano stucchevoli (e kitsch) i persistenti cori che ammiccano ai singalong da concerto. 
Le ombre dell'opera stanno tutte nell'esasperazione del "niente di nuovo sotto il sole", costante che senza dubbio contraddistingue il novanta per cento dei dischi di genere (e non solo), ma qui davvero persistente.

Ad ogni modo, anche se poco, io mi ci sono anche divertito. Sarà l'età.

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