Almeno, e sottolineo almeno, un capolavoro a decennio. Questa la regola di Bob Dylan nel novecento. Se guardiamo alla sua produzione il conto è presto fatto, a partire dai sessanta, quando, in particolar modo i dischi dal 1963 al 1966 rappresentano spartiacque epocali (parliamo di robetta tipo Freewheelin'; The times they are a-changin'; Bringing it all back home; Highway 61 Revisited e Blonde on blonde), per passare ai settanta (Blood on the tracks; The basement tapes e Desire), gli ottanta (Oh mercy) , e arrivando infine ai novanta (Time out of mind), il Maestro non ha mai derogato alla norma.Poi è arrivato il ventunesimo secolo, con due buoni lavori che si stagliano sul resto della produzione del periodo, Love & theft e Modern times, un ultimo album di inediti nel 2012 (Tempest), e una serie di raccolte contenenti interpretazioni di altrui composizioni (l'ultima, Triplicate, addirittura in formato triplo CD). Mancava quindi il picco d'assoluta eccellenza ed erano otto anni che il buon Bob non rilasciava materiale proprio.
Il fatto che abbia scelto questo disgraziato periodo per colmare in un colpo solo queste due lacune non voglio considerarlo casuale.
Ricordo in maniera indelebile tutti i dettagli del primo ascolto delle canzoni che hanno segnato la mia vita: dove mi trovavo, (eventualmente) con chi, come ho ascoltato il brano, le emozioni che mi ha trasmesso. Bene, nell'hard disc della mia memoria fissa ora occupa un posto di rilievo anche Murder most foul, il comeback di Dylan, ascoltato per la prima volta da youtube alla fine di marzo dello scorso anno, nel periodo fin qui più drammatico della pandemia. Eravamo in lockdown, con le città chiuse e io, dopo una giornata di smart working, ero sul balcone di casa, seduto ad ascoltare in uno stato di semi trance le macchine della polizia che passavano nel quartiere intimando, attraverso l'altoparlante, di stare a casa. E' lì che ho infilato le cuffie dello smartphone e ho premuto per la prima volta l'avvio della riproduzione del video (in realtà un'immagine fissa del volto di John F. Kennedy, la stessa della quarta di copertina del disco) di Murder most foul e, dopo una manciata di minuti (all'incirca quando inizia la lunga strofa inaugurata dal verso "Play me a song Mr. Wolfman Jack") ho rivolto un pensiero alle entità superiori, ringraziandole, nell'ordine, dell'esistenza di Bob Dylan, di essere vivo e di potermi permettere di emozionarmi ancora, alla mia età, al cospetto di una canzone.
Che poi definire Murder most foul una semplice canzone sarebbe come dire che Furore di John Steinbeck è solo un romanzo.
Intanto perchè si tratta del brano più lungo mai inciso dal cantautore (quasi diciassette minuti), e poi perchè, dentro questo flusso di coscienza reso attraverso l'inimmaginabile potenza che un filo di voce può sprigionare, vive la sintesi di un artista, della sua visione di un Paese bellissimo e terribile, delle bugie e del sangue su cui è edificato.
Il rapporto tra questa traccia e l'album Rough and rowdy ways è di armoniosa ma separata convivenza, infatti, nonostante Murder most foul avrebbe potuto tranquillamente stare nel timing complessivo di un CD, aggiungendosi ai cinquantatre minuti della rimanente tracklist, gli è stato riservato un posto di riguardo, come unico brano di un bonus disc aggiuntivo.
Quindi, nel recensire Rough and rowdy ways (che io, in pieno lapsus freudiano ho continuato e continuo a storpiare in Rough and rowdy DAYS), bisogna partire daccapo, con l'opener I contain multitudes, e salutando il ritorno al suntuoso songwriting che ci si aspetta da Dylan, veicolato da un folk-croonering che il nostro veste come un guanto, ma senza che questa cifra stilistica limiti l'orizzonte "americana" del resto dell'album.
False prophet è infatti un altro splendido connubio testo/melodia che sceglie il blues rurale per esprimersi. E a chi pensa che ottant'anni (da compiere il 24 maggio) siano un'età fuori tempo massimo per comporre una credibile canzone d'amore farei ascoltare una My own version of you, così pregna di poesia e suggestioni da far appendere matita a taccuino ( o, ahimè, ipad) al chiodo a tanti novelli cantautori della minchia.
Il ritrovato stato di forma di uno degli artisti musicali più influenti del ventesimo secolo sorprende solo alla luce dei recenti lavori, che sembravano delineare nella divulgazione di canzoni tradizionali americane, perlopiù misconosciute e del periodo a cavallo tra gli anni venti e i cinquanta, il dignitosissimo viatico di una carriera al tramonto.
Di certo un contributo non secondario alla rinascita compositiva di Dylan l'ha fornita la sua backing band consolidata, quella dei Never Ending Tour, quella di, cito su tutti, Charlie Sexton alla chitarra, che si è avvalsa di recente anche di Matt Chamberlain alla batteria, mentre per Murder must foul i musicisti ospiti (entrambi al piano) chiamati ad impreziosire il tessuto musicale rispondono ai nomi di Benmont Tench (Tom Petty and the Heartbreakers) e Fiona Apple.
Insomma, siamo stati un pò troppo frettolosi a decretare la fine di Dylan. Per chiarirci il concetto l'uomo che più d'ogni altro ha saputo scrivere pagine indelebili della musica moderna ci dona un colpo di coda (a questo punto speriamo non l'ultimo) da lasciare senza fiato. E chissà se l'evocativo valzer che accompagna I've made up my mind to give myself to you, il blues, stavolta elettrico, tributo ad un grande bluesman del passato Goodbye Jimmy Reed, o i quasi dieci minuti dell'introspettiva ballata Key West (Philopher pirate), possano, nel tempo, affiancarsi se non ai classici immortali, almeno a quelli che arrivano subito dietro.
Insomma, qui il tema non è voler vincere facile parlando bene di qualunque composizione componga Dylan, ma saper riconoscere l'arte. A volte ci si riesce, altre meno. E in questo caso bisognerebbe essere sordi e privi di qualunque forma di umana emozione, per sbagliarsi.
Eh, che dire, quando la stoffa è buona...
RispondiEliminaDylan è sempre Dylan!
Beh, se non proprio sempre sempre, diciamo...Most of the time ;)
RispondiEliminaSagace
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