lunedì 16 dicembre 2019

Iggy Pop, Free

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Quando mi trovo davanti all'opera di un icona come Iggy Pop (mi rifiuto con sdegno di richiamare il suo curriculum) che rilascia un disco oscuro, crepuscolare, suggestivo come non mai, dove un sax o una tromba fragili e sofferti si dividono equamente i riflettori con la la voce segnata da mille battaglie del sacro Iguana, non posso che arrendermi già dopo pochi secondi di ascolto.

A tre anni dal successo di critica e pubblico (e non accadeva da tempo) di Post pop depression, album creato in coabitazione con Josh Homme, il settantaduenne nato James Newell Osterberg jr si concede un disco da lui stesso definito come "una riflessione sull'estenuante vita post tour" nel quale imbarca atmosfere che richiamano Nick Cave, Leonard Cohen, Johnny Cash (periodo Unearthed), ma anche suggestioni dell'amico di sempre David Bowie, in versione ultimi anni, sfornando un lavoro che è limitativo definire notturno. In realtà Free è la materia stessa di cui è composta la notte.

Dopo una manciata di pezzi (Loves missing; Sonali; James Bond) posti nella prima parte, che utilizzano una struttura canzone canonica, la tracklist si avventura in territori jazzati davvero più "free", nei quali trovano spazio prima brani sperimentali come Glow in the dark o Page ai quali seguono una composizione che Lou Reed scrisse nel 1970 (We are the people) e che Iggy non canta, ma declama, così come fa per la traccia successiva, Do not go gentle into that good night, da un testo di Dylan Thomas e per la conclusiva The dawn, straniante e suggestiva, che della traccia precedente appare come la naturale prosecuzione.

Poco più di mezzora di musica magnetica e ammaliante, che andrebbe rigorosamente sentita attraverso le cuffie, per non perdere nemmeno una nota o un passaggio, oppure, va da sè, in auto, quando fuori è calato il buio e il più rispettoso dei silenzi. 
Brividi.

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