lunedì 22 luglio 2019

D.A.D., A prayer for the loud

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Diamine, i D.A.D. . 
Li avevo persi qualcosa come trent'anni fa (madonna, fa impressione scriverlo) con quel No fuel left for the pilgrims che un certo rumore l'aveva fatto.
Poi, sì, mi arrivavano all'orecchio echi di ulteriori uscite nel corso del tempo (da quell'album nove fino ad oggi, in pratica una ogni tre anni),  ma non tali da far schioccare in me la frusta della curiosità.
Fino ad oggi, quando per ragioni come sempre imperscrutabili e frutto del caso, le mie orecchie sono tornate a posarsi sull'ultimo lavoro della band.
E sono ancora qui a ringraziare quel giorno

Per chi non lo sapesse, il monicker del gruppo danese sta per Disneyland After Dark, qualcosa di semplicemente geniale che però, com'era facilmente prevedibile, ha causato problemi di natura legale alla formazione, che ha dovuto accontentarsi di utilizzare l'acronimo di cui sopra, non senza però rinunciare al proprio spirito goliardico, se è vero che il disco del 2011, l'ultimo prima di questo, aveva per titolo DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK . 
E' sufficiente unire i puntini...

Di calembour in calembour, su una copertina che riprende la "mascotte" del gruppo (l'iconografico teschio di bue) in ambito vagamente blasfemo, ecco un titolo strepitoso, che mette insieme sacro e profano: A prayer for the loud.
Undici pezzi, a mio modo di vedere divisi in due sezioni stilisticamente differenti. La prima, fino alla traccia cinque è la mia preferita, ma la seconda gliela ammolla anche lei, con almeno un paio di pezzi sopra la media.
Il disco sprigiona il suo potenziale dopo un opener, la divertente Burning star, che prepara il campo ad almeno due pezzi di livello superiore, offerti in pegno sul sacro altare del blues, e dei suoi pattern universali che vestono perfettamente John Lee Hooker come i Depeche Mode di Personal Jesus. Le due tracce in questione sono la title track, inno totale e l'altrettanto strepitosa The sky is made of blues. Due canzoni che, ne sono certo, resteranno, se non nella storia, a causa della bulimia di uscite e della poca visibilità dei DAD, almeno nella mia memoria per molto, moltissimo tempo. 
Prima e dopo, dentro uno schema che prevede una seconda parte più hard-heavy della prima,  una serie di canzoni ispirate ed affilate (The real me; Happy days in hell), con il giro blues di cui sopra che torna e si diverte con gli AC/DC (Musical chairs) e due lenti (A drug for the heart e If the world just) che avvicinano l'asticella alle due tracce capolavoro di cui sopra.

Insomma, A prayer for the loud è un discone imperdibile.
L'ennesimo, dentro un anno che mi sta regalando grande godimento e soddisfazione.

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