giovedì 27 settembre 2018

The Dead Daisies, Burn it down

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Quando ho saputo che i Dead Daisies avrebbero registrato il nuovo album a Nashville ho temuto fortemente la svolta country. No, non sono impazzito, adoro il country fatto bene, e proprio per questo devo constatare che purtroppo l'approccio di chi viene da altri generi a questo stile è quasi sempre di tipo mainstream. Fortunatamente, nel caso delle Margherite Morte la scelta della location per gli studi di registrazione è stata invece di natura esclusivamente pragmatica: le tariffe più basse e la vicinanza con la casa del produttore Marti Frederiksen hanno giocato un ruolo decisivo nella scelta.
Dal punto di vista più prettamente musicale, c'è da registrare come la band, in passato vero e proprio porto di mare per uno svariato numero di musicisti che ruotavano attorno alla figura di David Lowy (chitarra ritmica ma anche pilota di aerei e CEO di una grossa azienda), si sia cristallizzata con un nucleo di artisti, acquisendone in coesione e autostima.
E che artisti, verrebbe da aggiungere. Il massimo in ambito hard rock melodico: John Corabi alla voce, Doug Aldrich alla chitarra, Marco Mendoza al basso e Deen Castronovo, unico nuovo innesto, alla batteria. Con un parterre così, è difficile confondersi sull'orientamento dello stile musicale, così come sul tiro del disco. E infatti Burn it down pesta giù magnificamente in ambito sleaze/hard rock, in maniera anche più efficace del precedente Make some noise.
Sugli scudi Corabi, che sembra aver sconfitto le sfighe della sua carriera con un elisir di immortalità per la sua fantastica voce, ma è tutto il gruppo a suonare coeso e convinto, da vera band, al punto che Burn it down si potrebbe tranquillamente suonare in modalità random, senza incappare brani deboli o filler. 
Da veri appassionati di rock poi la soluzione che i Dead Daisies propongono  all'eterno conflitto Beatles o Rolling Stones: una cover ciascuno e tutti contenti. 
Per la cronaca il tributo agli Stones (Bitch) si erge prepotentemente su quello ai Beatles (Revolution), grazie al riff granitico di Richards, che qui diventa letteralmente sconquassante.

Ormai una certezza.

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