lunedì 9 aprile 2018

La mala ordina (1972)


Solo qualche mese dopo l'uscita nei cinema di Milano Calibro 9, sempre nel 1972, Fernando Di Leo gira (oltre a scriverne soggetto, dialoghi e parte della sceneggiatura) La mala ordina, secondo capitolo di quella che sarà ricordata come trilogia del milieu, e che prende ancora spunto da un racconto di Scebarnenco.
Pur muovendosi nello stesso ambito del precedente film (il mondo della criminalità milanese i cui estremi - capi e scagnozzi - entrano in conflitto) dal punto di vista della messa in scena, La mala ordina è un lavoro con sostanziali differenze da Milano Calibro 9.
Lo si capisce già dall'incipit, dove, in luogo dell'avvincente costruzione della consegna del pacco vista nel primo capitolo della trilogia, assistiamo invece ad un dialogo in un lussuoso attico newyorkese, dove un boss della mafia americana dà disposizione a due sgherri di recarsi a Milano ed uccidere un certo Luca Canali. Non viene spiegato allo spettatore il motivo di questa condanna a morte, ma è chiaro che qualcosa di grave debba essere successo, perchè il boss pretende che l'omicidio sia estremamente plateale e cruento, per mandare a tutti un messaggio chiaro. Canali (Mario Adorf) è un anonimo pappone che esercita la professione al Parco Lambro, distantissimo dai traffici importanti gestiti in città dal padrino Vito Tressoldi (Adolfo Celi), totalmente ignaro di quanto sta per accadergli. Giunti a Milano, i due americani, un bianco (Henry Silva) e un nero (Woody Strode), si lasciano convincere da Tressoldi di lasciare a lui la cattura di Canali ma, prima quasi fortuitamente, poi dimostrando una certa abilità, il pappone si rivelerà una preda molto più difficile del previsto. Per questa ragione Don Vito colpirà vilmente gli affetti più cari di Canali, scatenando così la sua ira incontenibile.

Posto che, film dopo film, sono diventato fan di Mario Adorf, sull'ineccepibile confezione complessiva tecnico narrativa della pellicola approntata da Di Leo, ancora una volta, c'è poco da dire. La mala ordina tiene incollati dalla prima all'ultima scena, usando la stessa cassetta degli attrezzi di Milano Calibro 9, ma estraendo utensili diversi. L'azione si svolge ancora a Milano, ma la disanima politico sociale esce dallo schema del plot, che si sviluppa dall'inizio alla fine come una vera e propria gangster story, con le forze dell'ordine totalmente fuori dai giochi. L'intero cast scelto risponde alla grande, dai ruoli principali (i già citati Adorf, Celi, Silva e Strode) a quelli minori (Luciana Paluzzi - l'italiana Eva che fa da guida ai due killer americani - ; Franco Fabrizi - meccanico d'auto e venditore abusivo di armi - ), con la curiosità del cameo di un giovanissimo Renato Zero, nel ruolo di un hippy-contestatore dedito esclusivamente, come i suoi compagni, a feste, droghe e amore libero.
Altro elemento che differenzia questo film dal suo predecessore è la presenza di una lunga sequenza (quasi sei minuti) di inseguimento, prima in macchina e poi a piedi, con la celebre scena di Adorf aggrappato sul muso della macchina che percorre a tutta velocità le strade di Milano. I ricordi di chi ha girato la sequenza (che parte dai Navigli e finisce allo storico luna park delle Varesine) aggiungono ulteriormente fascino e ammirazione per questi artigiani del nostro cinema che fu, che giravano per strade trafficate senza autorizzazioni preventive, con una velocità di 16 fotogrammi, poi aumentata nel montaggio a 24.

Se la sfera politica è accantonata (tornerà in maniera deflagrante nel successivo Il boss), l'occhio del regista è invece sempre vigile sugli aspetti della società italiana del periodo, come nel caso del popolo dei contestatori o del fenomeno delle baby squillo, che oggi tanto indigna ma che, evidentemente, ha radici lontane e consolidate.
Sta anche in questo l'indiscusso talento di artisti come Di Leo: oltre al piacere di assistere a film eccezionali, girati con maestria, attori in parte e sorprendenti intuizioni tecnico-sceniche-narrative (nonchè, sia detto con simpatia, alle ricorrenti marchette per il bourbon J&B, l'acqua Pejo e il Fernet Branca) la visione dei suoi lavori permette sempre una stimolante comparazione tra quell'Italia e la nostra. 
Elemento che mette sullo stesso piano uno dei maestri del cinema di genere con i più stimati cineasti impegnati del periodo.

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