lunedì 12 marzo 2018

La classe operaia va in paradiso (1971)


Primi anni settanta. Ludovico, detto Lulù (Gian Maria Volontè) è un operaio metalmeccanico appena trentenne. Reduce da un divorzio, vive con Lidia, anch'essa separata, e con il figlio di lei. Conduce un'esistenza sempre precaria dal punto di vista economico, zoppicante da quello della stabilità affettiva e incerta per l'aspetto della salute. In fabbrica però si trasforma in un drago. Oggi verrebbe definito il più performante di tutti i dipendenti: è l'indiscusso campione del cottimo, le sue prestazioni stabiliscono tempi di produzione e ritmi di lavoro a cui tutti devono adeguarsi, per questo è portato ad esempio dai capi ed, ovviamente, inviso agli altri colleghi. Vive una vita di totale indifferenza ai temi sociali, politici o sindacali. Tira dritto con la testa bassa per la sua strada di lavoro massacrante e straordinari per arrivare a fine mese ad una retribuzione decente, senza curarsi di niente e di nessuno. Tutto ciò fino a quando un grave infortunio sul lavoro non sconvolgerà la sua routine, obbligandolo ad un impietoso consuntivo della propria magmatica esistenza.

Tutti conoscono il titolo di questa seminale opera di Elio Petri, effettivamente geniale nella sua intuizione. Non sono invece convinto che lo stesso numero di persone, purtroppo, abbia poi effettivamente visto un film che, storicamente, vive di contraddizioni e paradossi.
Infatti, la pellicola, uscita nel 1971 poco dopo il varo dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del maggio 1970), già solo dieci anni dopo risultava irrimediabilmente datata: nei primi ottanta, quando tutela dei lavoratori e potere sindacale si avvicinavano al loro zenith e la conquista di nuovi diritti sembrava inarrestabile, La classe operaia va in paradiso sembrava un reperto archeologico. 
Rivedendola oggi, l'opera di Petri, coadiuvato dal suo interprete feticcio Volontè (anche qui una superba lezione attoriale, è pleonastico ribadirlo), incredibilmente affronta quasi dei temi da instant movie. Certo, lo scenario dell'epoca era quello di una delle sterminate fabbriche metalmeccaniche onnipresenti sul territorio del nord Italia, mentre oggi gli stessi argomenti, ripresi paro paro se non peggiorati, sono presenti nei grandi centri logistici altrettanto preponderanti nei panorami che scorgiamo dal finestrino della macchina, ma per il resto, i ritmi di lavoro disumani, il cottimo, l'asticella della produzione sempre più alta, che caratterizzavano il lavoro dell'epoca, oggi hanno nomi più eleganti come l'algoritmo o il range, ma nel concreto si tratta di evoluzioni del cottimo. Non serve scandalizzarsi per il braccialetto inventato da Amazon, basta confrontarsi con un lavoratore dei magazzini che operano per i grandi colossi dell'e-commerce per sentirsi dire che, braccialetto o non braccialetto, i ritmi di lavoro ai quali sei quotidianamente sottoposto li puoi sostenere al massimo per tre-quattro anni, poi arriva inesorabilmente il crollo sia a livello fisico che mentale.

Tornando all'opera di Petri, il regista romano non si limita a mostrare il suo punto di vista sull'argomento fabbrica, ma accende un faro sulla società, e in questo senso lo smarrimento di Lulù, la sua alienazione, il percorso che compie a piedi, nel paesaggio inospitale e innevato che lo divide dalla fabbrica, tagliando in due i presidi, del sindacato confederale e dei più radicali studenti policitizzati, che chiamano schiavi gli operai, sembra quasi un viaggio epico, periglioso, che comunque Ludovico e i suoi colleghi compiono in maniera indifferente, rassegnata, apatica. In questo stato mentale, neanche l'avventura che il Massa si concede in auto con la giovane e avvenente operaia Adalgisa illumina l'esistenza del protagonista. Petri rende questo atto in maniera fredda, spogliato di ogni scintilla di trasporto o passione, consumato come si consumano caffè e sigaretta ai distributori automatici, nelle pause rubate al controllo dei capi reparto. 
A rivelare il profondo stato di alienazione del Massa anche la sua vita familiare, le cene nella penombra della cucina illuminata solo dal bagliore della televisione con una compagna (Mariangela Melato) a pretendere attenzioni che il guscio vuoto in cui si tramuta Ludovico, una volta fuori dalla fabbrica, non è in grado di concedergli.

Lo sa, Lulù, che bisogna tenere sempre la testa bassa e continuare a lavorare, senza concedersi slanci o sognare un'esistenza migliore, perchè quando lo si fa, il risveglio della realtà sarà più doloroso di un'intera esistenza di fatica e rassegnazione. Ribellandosi alla "macchina", Lulù riceverà proprio questa tremenda lezione, e quando sarà reintegrato al proprio posto di lavoro, lo smarrimento che vediamo sul suo volto rappresenta il tradimento subito da un'intera generazione.

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