lunedì 5 febbraio 2018

Sciopero! (1925)


Il primo lungometraggio del regista russo Eisenstein, girato quasi cento anni fa (93 per l'esattezza), resta ancora oggi un miracolo di tecnica ed espressività cinematografica sbalorditiva, una confezione che straripa dallo schermo e dai presunti limiti imposti dal muto. Con questo non voglio sostenere che l'ora e venti abbondante di durata della pellicola voli leggera, la visione alterna infatti momenti di esaltazione a fasi più faticose, ma anche lo sviluppo della storia, tornata tristemente d'attualità, aiuta nel mantenere altissimo pathos e coinvolgimento emotivo.

Gli eventi narrati dal film si concentrano sugli operai di una fabbrica siderurgica, sfruttati e spremuti oltre ogni sopportazione dal padrone, che gradualmente si organizzano e, a causa del suicidio di un loro compagno ingiustamente accusato di furto, si ribellano bloccando lo stabilimento e chiedendo, per riprendere a lavorare, che vengano soddisfatte alcune loro rivendicazioni (orario di lavoro a otto ore - sei per i minori - , il 30% di aumento e un trattamento più dignitoso da parte dell'amministrazione). I padroni ignorano le richieste e organizzano una rete di sabotatori da infiltrare tra gli scioperanti per spiarli, creare disordini e procedere poi alla repressione con Polizia ed Esercito dello zar.

La colonna sonora del film è inevitabilmente debitrice della musica classica (l'autore è Prokof'ev), ad eccezione dei momenti in cui passa improvvisamente, ma in maniera del tutto armoniosa, al canone jazz, come quando vengono introdotti i laidi personaggi capitanati dal Re dei ladri.

La messa in scena di quest'opera da parte di Eisenestein lascia sgomenti per la maestria nel coniugare i mezzi tecnici di un'arte, quella cinematografica, ai suoi albori, con sequenze immaginifiche che sviluppano vibranti scene di massa, impressionanti profondità di campo, esperimenti con la pellicola, come la sovrimpressione  dei volti delle spie da infiltrare con la testa degli animali da cui prendono il soprannome (il gufo, la volpe, etc.), immagini anthemiche come quella dei tre operai che, dando le spalle alla ruota meccanica, simbolo dell'oppressione, incrociano con espressione fiera le braccia o riprese dell'interno della fabbrica, tra cui una carrellata dall'alto, che qualcuno dovrebbe spiegarmi come diamine è stata fatta in considerazione della limitatezza dei mezzi tecnici nel periodo storico.

Poi ci sono le tante immagine iconografiche che ancora oggi vengono usate nella comunicazione più radicale contro il capitalismo: su tutte quella dell'archetipo del Padrone, grasso per la troppa opulenza, arrogante, ottuso e sprezzante delle condizioni dei suoi operai, raffigurato con abito elegante, cilindro e sigaro tra i denti, mentre decide della vita e della morte di tanta povera gente passando da uno sfarzoso banchetto all'altro. 
D'altro canto il movimento dei lavoratori viene ovviamente celebrato, ma senza risparmiare critiche nelle fasi di stallo della lotta, per l'inedia nella quale molti di loro precipiteranno.

Se queste considerazioni possono sembrare espresse da un vecchio nostalgico fuori dal tempo, quale sicuramente io mi considero, basta guardarsi attorno per capire che un secolo dopo forse non stiamo così meglio: nelle spaventosi condizioni di lavoro delle fabbriche cinesi di oggi (attorno alle quali vengono allestite abitazioni catapecchia che "permettono" alle maestranze di vivere in funzione dello stabilimento, esattamente come accade nel film di Esistein) che hanno condotto tanti lavoratori al suicidio o la repressione violenta, quotidiana, di migliaia di lavoratori nei terzi e quarti mondi da parte di milizie al soldo dei moderni padroni, c'è infatti tutta la triste attualità di questa pellicola. 

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