lunedì 6 novembre 2017

Banditi a Milano (1968)


Se la critica è unanimamente concorde nel riconoscere a La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina (che per questo unico film ha rinunciato al solito pseudonimo di Steno) il valore di big bang del cinema poliziesco italiano, lo stesso si può dire per quello che è da tutti considerato l'antesignano del genere: Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani.
Il film è un perfetto esempio di instant movie, laddove i fatti narrati, le rapine della banda Cavallero a Milano, si erano svolti solo qualche mese prima (il 25 settembre 1967) dell'uscita della pellicola, con il processo a carico dei quattro rapinatori in pieno svolgimento quando il film raggiunge le sale.
Lizzani, un curriculum che come prassi dell'epoca abbracciava generi diversi, ma con un costante focus verso la storia passata e presente (Achtung! Banditi!; L'oro di Roma; Il processo di Verona; Svegliati e uccidi; Mussolini ultimo atto) gira un film che inizia come un documentario, con i primi dieci-quindici minuti iniziali presentati alla stregua di servizi di telegiornali dove, attraverso un'intervista ad un commissario di Polizia (interpretato da uno sbarbatissimo Tomas Milian) vengono spiegate diverse dinamiche criminali legate al mondo della mala: droga, prostituzione, pizzo e violenza in generale. Solo successivamente a questa premessa si passa alla vera e propria narrazione della storia,  che ruota attorno a questi tre insospettabili incensurati torinesi (Pietro Canestraro/Pietro Cavallero interpretato da Gian Maria Volontè; Sandro Giannantonio/Sandro Notarnicola da Don Backy; Bartolini/Rovoletto da Enzo Sancrotti) che si rendono responsabili di rapine in serie in Piemonte, Liguria e Lombardia con la tecnica della doppietta o tripletta (due-tre banche rapinate in rapida sequenza approfittando dello spiazzamento delle forze dell'ordine). A guidare la batteria il Canestraro ex attivista del P.C.I., che ha abbandonato il partito per scarso decisionismo, vive la criminalità come un equilibratore sociale imponendo la sua personalità strabordante agli altri attraverso una prosopopea altisonante, irriverente, un florilegio verbale continuo, provocazioni a raffica e pressioni psicologiche. In questo ruolo, ca va sans dir, Gian Maria Volontè giganteggia, catturando l'occhio della macchina da presa dalla prima all'ultima posa.
La rapina fatale dei tre (più un ragazzino appena reclutato con il ruolo di "palo") è quella del Banco di Napoli in via Zandonai a Milano, dove, per una casualità, la Polizia arriva prima dei tempi previsti costringendo i rapinatori ad una fuga disperata, a folle velocità per le vie cittadine, con il fuoco aperto anche sui passanti per tenere a distanza le pantere dei poliziotti. Resteranno a terra tre morti e una dozzina di feriti e il Rovoletto, autista dell'auto dei rapinatori, in fuga a piedi, sarà miracolosamente sottratto dal linciaggio della folla. Alla fine i tre saranno tutti catturati e condannati all'ergastolo.

Come premesso, Banditi a Milano è sì un film "sociale" che riprende non solo un clamoroso fatto di cronaca, ma anche la fotografia della società italiana, in un momento (la fine dei sessanta), nel quale si cominciava ad intravedere quella deriva violenta che sarebbe poi deflagrata nel decennio successivo. Oltre a questo, alcune sequenze della pellicola (le rapine, gli inseguimenti in macchina), indicano la via all'incombente filone del cinema poliziesco italiano, croce e delizia delle nostre produzioni di genere.

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