James Ellroy ha rischiato seriamente di impazzire mentre scriveva questo libro. Conoscendo l'autore e dopo aver letto il romanzo, non fatico a crederlo.
Il sangue è randagio chiude, a quasi quindici anni dall'imperdibile American Tabloid e a otto dal validissimo Sei pezzi da mille, la Underworld USA Trilogy, sorta di biografia che copre vent'anni di storia della nazione più influente al mondo, dalla metà dei cinquanta agli inizi dei settanta, sotto il denominatore comune delle manovre paranoiche di J. Edgar Hoover, capo dell'F.B.I. per qualcosa come mezzo secolo.
C'è del vero nella critica che molti muovono a Ellroy (il mio scrittore preferito, nel caso a qualcuno non l'abbia ancora detto) in merito alla flessione delle sue opere, ma credo che molto dipenda dalle aspettative mostruose nei riguardi di uno che ha scritto pietre angolari della letteratura noir americana, come la trilogia del tenente Hopkins (Le strade dell'innocenza; Perché la notte; La collina dei suicidi) e la tetralogia di L.A. (Dalia nera; Il grande nulla; L.A. Confidential; White jazz), massimo esempio in cui il genere pulp si coniuga con il romanzo storico, oltre I miei luoghi oscuri, una delle più spietate e avvincenti autobiografie mai pubblicate
Scorrendo le pagine del romanzo il tormento passato dallo scrittore nel corso del processo creativo e gli alti e bassi dell'ispirazione attraversati durante gli otto anni di gestazione dello scritto balzano agli occhi di un lettore attento ed affezionato.
Il sangue è randagio comincia male. Si riconoscono benissimo i meccanismi narrativi di Ellroy, ma è come se filtrassero attraverso una lente che ne deforma i connotati, rendendoli quasi una parodia degli spunti migliori dello scrittore. Ne deriva che la partenza mette a dura prova anche la fidelizzazione più tenace (come già testimoniato). Si riprendono i fili narrativi delle vite di Wayne Tedrow jr e Dwight Holly, rispettivamente alla loro seconda e terza apparizione, e dei loro rapporti con Howard Hughes e J.E. Hoover, si introduce soprattutto il personaggio di Don Crutchfield, tipologa ricorrente di character che riassume in sè diversi aspetti della gioventù border line di Ellroy stesso.
Superata questa prima fase un pò zoppicante, nella sua ampia parte centrale il libro ingrana, in corrispondenza con i tentativi di mafia e F.B.I. di trovare un porto sicuro per riciclare i soldi sporchi una e continuare a reprimere la nascente minaccia comunista in quella zona geografica gli altri, a seguito della caduta di Cuba e dell'avvento di Castro. La Repubblica Dominicana del dittatorello di turno e la spaventosamente povera Haiti danno in questo senso le garanzie giuste. E' qui che si torna ad appassionarsi all' Ellroy che ci aveva letteralmente stregato con il suo stile di scrittura, i suoi intrighi, la sua violenza, la feroce lucidità delle sue storie. Nell'ultima parte del romanzo purtroppo l'autore torna a smarrirsi, portando una storia complessa e stratificata ad una soluzione affrettata, poco convincente.
Ad ogni modo le traiettorie di Tedrow jr e Holly, tra doppi giochi e pericolosi ripensamenti morali, non tradiscono le migliori tradizioni di imprevedibilità di Ellroy, che qualcosa ha sicuramente insegnato a George R.R. Martin sull'essere spietato con le sue migliori creature. Meno a fuoco risultano i personaggi femminili, nonostante lo sforzo dello scrittore di riservargli un ruolo centrale, mentre il protagonista più emozionante, quello che meglio asseconda il processo di evoluzione ellroyano, è senza dubbio Don Crutchfield.
Un romanzo di James Ellroy è per me sempre un'esperienza totale. Un viaggio che lascia strascichi profondi anche diversi giorni dopo la sua conclusione e persino quando, come in questo caso, si rivela accidentato e dall'orientamento non sempre definito. Non capisco quanto il merito di questa affezione sia da attribuire al talento dell'autore e quanto invece ai semi dei suoi lavori migliori, germogliati e radicati nel mio immaginario.
Certo è che con Il sangue randagio si chiude una fase creativa di James lunga quasi tre lustri.
Quella che va ad aprirsi dovrà chiarire definitivamente se uno degli autori americani più grandi del nostro tempo, come lo definisce il L.A. Book Review, sappia tornare ai suoi fasti o rassegnarsi ad un dignitoso declino.
Mi manca!Ma lo leggerò. Gli altri due, invece, assolutamente imperdibili.
RispondiEliminaDa tempo ho perso di vista Ellroy. E dire che trovavo abbastanza contratto il linguaggio di "American Tabloid", quando ho scorso le prime pagine di questo a momenti mi sono sentita male. Una media di un punto ogni tre parole, forse meno...
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