mercoledì 27 novembre 2013

Breaking Bad, final season

 
Quanti piccoli Walter White albergano in ognuno di noi? Quanta insoddisfazione coviamo mentre svolgiamo diligentemente un lavoro che detestiamo? Quanta frustrazione alimentiamo quotidianamente nel vedere persone completamente prive di talento raggiungere invece fama e successo?  Quanto siamo persuasi che sia solo la sfortuna ad averci impedito di raggiungere, meritatamente, quei successi? Che, anzi, quei successi fossero nostri di diritto?  
All'inizio di Breaking Bad Walter White (quello originale) è un uomo esattamente così. Ci viene presentato come una persona dimessa, umile, posata. Fa il professore in una high school che s'intuisce non essere prestigiosissima, ma per mantenere moglie, figlio adolescente disabile e nuovo nascituro in arrivo, al pomeriggio si presta al secondo lavoro in un autolavaggio, dove gli tocca, a volte, subire l'umiliazione di lucidare l'auto sportiva ai suoi alunni benestanti. Il rapporto con la consorte Skyler è entrato in quella routine che conosciamo bene. La presenza dell'altro diventa una confortante abitudine. Si prepara la cena, si parla del tempo, si va a dormire. I rapporti sessuali sono ormai rari, fugaci e quasi distratti.
Fin qui White è uno di noi. Perché a cinquant'anni è tempo di accantonare i sogni di gioventù e badare al sodo. Al sostentamento dei propri cari. Al loro futuro.
 
Poi la storia cambia (per fortuna, sennò sai che palle un serial pari pari sulla tua vita). A Walter viene diagnosticato un cancro ai polmoni, il che, nella società americana, significa due cose: 1) senza un'adeguata (cioè costosissima) assicurazione sanitaria non avere accesso alle opportune cure 2) lasciare questa valle di lacrime con la tua famiglia indebitata fino al collo.
E allora ecco che la terribile malattia fa da innesco, gira l'interruttore, attiva la parola in codice che risveglia la cellula dormiente che albergava dentro il protagonista. Ecco che, prima in maniera maldestra, poi sempre più autorevolmente, l'imbranato ma geniale professore di chimica fa venire fuori il suo (a tratti) mostruoso alter-ego. Lo fa sfogare fino a giungere a veri e propri deliri di onnipotenza. Fino a prendersi tutte le rivincite della vita e anche oltre. Per cinque stagioni questo moderno Mr. Hyde s'infuria con la moglie perché non capisce come la sua opera sia unicamente orientata a garantire il benessere della famiglia.
 
Solo alla fine, prima di attuare il suo ultimo piano suicida , davanti ad una Skyler quasi avvizzita, letteralmente consumata dai tremendi eventi che l'hanno travolta, confessa, in quell'impeto di sincerità proprio dei condannati a morte, la verità che fino a quel momento aveva negato anche a se stesso: ha fatto tutto per se stesso. Ha sempre fatto tutto per se stesso. Perché gli piaceva. Perché era dannatamente bravo in quello che faceva. Perché si era finalmente realizzato in un'impresa talmente grande da fare spavento.
E in ultima analisi viene da chiedersi se, negli ultimi istanti della sua vita, W.W. abbia trovato più conforto nell'ultima, sofferta carezza sul viso della figlia addormentata nella culla oppure nello sfiorare (accarezzare...) uno dei suoi strumenti, all'interno di un laboratorio clandestino di meths, mentre le sirene in sottofondo annunciavano l'arrivo della polizia. Le stesse sirene che, facendo da prologo al primo episodio, sancivano la morte simbolica del vecchio professore di chimica salutando la progressiva ascesa del nuovo re del crimine, ne accompagnano dunque l'ultima azione.
Folle e lucidissima. Fredda e passionale. Crudele e compassionevole.
Proprio come Walter White.

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