lunedì 7 gennaio 2013

I migliori dischi del 2012

Che anno musicale è stato il 2012? Beh, molto buono direi. Tanti titoli validi, con il ritorno di protagonisti storici del rock, la scoperta di artisti emergenti e il consolidamento di nomi importanti. Per quello mi riguarda l'anno è stato anche contraddistinto dal ritorno all'ascolto massivo del jazz, genere che avevo accantonato da qualche anno; dal completamento della discografia dei Black Sabbath periodo Ozzy; da tanti concerti segnati a matita sul calendario della cucina e poi regolarmente cancellati ( fatta eccezione per voi-sapete-chi ). Anche a questo giro sono solo riuscito ad avvicinarmi a tutta la musica che avrei voluto ascoltare, ma insomma, con circa un ora e mezzo di tempo al giorno, ho cercato di fare di necessità virtù. 
Nel compilare la classifica che segue ho deciso di escludere due dischi che normalmente vi sarebbero entrati: Around the world di Raul Malo e In Paris dei Pogues, in quanto trattasi in entrambi i casi di album dal vivo contenente materiale di repertorio, al quale ho preferito opere con contenuti inediti. Per i due in ogni caso, una menzione speciale. 
Ricordo a tutti infine il mio criterio di scelta, che è appassionatamente soggettivo e spesso supera in slancio il valore "oggettivo" di opere considerate più imprescindibili. A voi.



10) CORROSION OF COMFORMITY, Omonimo

Unico album della lista che non ho ancora fatto in tempo a recensire (pur essendo uscito a inizio 2012…) ma che, proprio in coda all’anno, mi sta regalando tante soddisfazioni con il suo oscillare elettrico tra il doom dei Sabbath, il thrash e persino lo speed-metal, nel tentativo (riuscito) di dimostrare che i generi possono anche essere considerati superati, ma tanto è la convinzione con cui li si suona che conta. E i Corrosion of Comformity questo lo sanno bene.






Beh, diamine. Non mi sarei mai aspettato di trovarmi ad essere così coinvolto, nella seconda decade del duemila a cantare, “cos i come from Alabama with the banjo on my knees” e invece… Potere dei grandi sciamani dei Crazy Horse guidati dallo spirito sacro di Neil Young e di una manciata di traditional americani (o in qualche modo all’America legati) che, evidentemente, se sollecitati da mani sapienti, hanno ancora molto da dare.








Si citano gli Husker Du, ma questo album di Bob Mould è filtrato anche dalle successive esperienze musicali del cantante/chitarrista ed ha il sapore genuinamente acido del grunge, del power pop e del post punk. Partenza fulminante, qualche calo di tensione, ma nel complesso un gran bel disco









Possibile che quest’uomo non sbagli un disco? O quantomeno, che dissemini costantemente i suoi lavori di note di rilievo, remarks che li rendono sempre, in qualche modo, speciali? O siamo noi ad avere un serio problema di dipendenza dalle sue corde vocali? Il dubbio non è sciolto da Funeral blues, che in compenso però, oltre alla solita classe a pacchi regala anche inaspettati momenti di elegantissimo pop.







Prima di ascoltare i Fine Before You Came, il genere emo-core era per me solo una delle tante definizioni di sottogenere musicali di cui non conoscevo la corrispondenza. Non è bastato Ormai a farmi appassionare a questa corrente rock, ma di certo è servito ad avvilupparmi nelle tele sonore a spirale e nelle fitte liriche della band milanese.







Band davvero particolare, quella dei Titus Andronicus. Ai loro componenti deve piacere parecchio mischiare temi alti e popolari. Depistare. Allestire gli strumenti nelle sale magne dei campus e poi nelle bettole più scalcinate dei docks. Citare i classici e scatenare l’inferno attraverso pezzi che incitano al pogo più devastante. La cosa divertente è che il tutto funziona. La speranza è che si conservino così.










Pop-country-folk-indie-rock. Che senso hanno le definizioni per una band che incrocia così tanti generi e artisti del passato, facendolo sempre con grande classe, senso dell’estetico e gusto per la melodia? Nessuna, appunto. Bisogna giusto saperseli godere.







Il disco country dell’anno e palma del più cantato. Finalmente il talento di Bob Wayne è deflagrato. Liriche rigorosamente outlaw, attitudine autodistruttiva e un duetto con Hank III che ridefinisce il significato del termine toxic twins. E alla fine, spargete le sue ceneri sull’autostrada…











I Mumfords hanno lavorato a lungo sul loro sound, riuscendo a saldargli insieme un songwriting ancora più solido e convincente del debutto, non riuscendo forse nell'impresa di raggiungere i picchi compositivi dell’esordio, ma compensando abilmente con una qualità media complessiva decisamente più alta. Lavoro emozionale.









L’ego di Capovilla esplode in mille frammenti di vetro che si conficcano nelle carni dell’ascoltatore. Artisticamente si gira meno dalle parti degli Shellac e più (ancora di più del passato) da quelle di Pasolini. Un ascolto a tratti difficile, insostenibile. Ma un’opera vera, dove dolore, disperazione e aggressività si armonizzano infine tra loro  respingendoti e attraendoti come il sapore del sangue in bocca dopo un colpo preso in piena faccia al quale, sia ben chiaro, reagisci con un ghigno di sfida.









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