lunedì 14 gennaio 2013

Dropkick Murphys, Signed and sealed in blood (2013)


La musica, intesa come arte, dovrebbe rappresentare evoluzione, cambiamento, ricerca. Nella realtà del pop-rock invece, sono pochi gli artisti o le band capaci di veri cambiamenti rispetto ai loro brand. Mi sovvengono random i Clash, Frank Zappa, Miles Davis, David Byrne, probabilmente Jimi Hendrix. Molti dei restanti girano in giro al loro sound consueto e rassicurante, modificandone occasionalmente il vestito ma mantenendone l'essenzialità, per non correre il rischio di spaventare troppo i fan.  All'interno di questa cerchia ci sono poi gruppi che nemmeno si pongono il problema dell'evoluzione, fedeli a se stessi e al proprio stile consolidato, fino alle estreme conseguenze (la più bieca autoreferenzialità). Vengono in mente in questo senso AC/DC,Motorhead. E naturalmente i Dropkick Murphys.

Adoro molte delle incarnazioni e contaminazioni del cosidetto folk irlandese (dai Pogues ai Waterboys, dai Dubliners agli Hothouse Flowers fino ai Black 47 e ai Flogging Molly) ma stranamente non mi si è mai accesa la scintilla per questo gruppo del Massachusetts giunto oggi, attraverso diversi cambi di formazione, all'ottavo lavoro. 
Onestamente poi, a parte la condivisione di alcuni strumenti tipici (banjo, fiddle, bagpipe) non vedo nemmeno tutto questo collegamento coi Pogues, ma i critici si sa, sono pigri e allora certi link vengono piazzati quasi in automatico. 
Premesso questo, i Dropkick Murphys sono un combo integro e onesto, che in qualche modo ha creato uno stile che parte dagli aspetti più estremi del punk e del combat folk irlandese per sfociare in deliri anthemici capaci di deflagrare puntualmente negli show dal vivo.

Signed and sealed in blood (primo album recensito nel 2013) arriva a soli due anni di distanza dal precedente Going out in style e ci consegna  una band che non perde colpi e che non arretra di un passo rispetto alla propria mission aziendale. Lo chiariscono immediatamente l'opener The boys are back e l'infuocata contaminazione con l'hardcore e l'oi! di Burn. Jimmy's Collins Wake rinsalda la linea politica dei bostoniani, mentre gli unici momenti riflessivi sono quelli di Rose tattoo e della conclusiva End of the night. In tutti i casi sono garantiti refrain irresistibili, clima da curva da stadio (o da pub all'ora di chiusura) e tanta, tanta attitudine.

Se si mettono da parte i pregiudizi in premessa (cosa non difficile, visto il tratto giurassico dei miei gusti), il divertimento non manca.

7/10

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