lunedì 2 agosto 2010

Got my mojo workin'

Premessa: per migliorare l'impostazione delle recensioni, in modo che si capisca bene già dal primo impatto di chi sto farneticando, ma soprattutto per dare sfogo alla mia frustazione di critico nonchè musicista mancato, da qui in poi imposterò i post in maniera più "professionale" (parlo della forma ovviamente, la sostanza resta la solita merda) con l'aggiunta dei famigerati voti da uno a cinque alla fine della rece.
Il bello è che con l'aiuto di Filippo e dell'instancabile lavoro di Samuele, in luogo delle palle o delle stellette posso fregiarmi di meravigliose pinte di Guinness a rappresentare la chiosa finale. Grazie a loro dunque e procediamo.




TOM PETTY AND THE HEARTBREAKERS
Mojo
Reprise Records, 2010



Non è mai banale un'uscita discografica di Tom Petty, soprattutto quando tornano a radunarsi attorno a lui Mike Campbell e il resto dei fidati Heartbreakers.

Questa nuova release esce a quattro anni di distanza dal precedente Higway Companion e il titolo scelto sembra voler indicarne con chiarezza la cifra stilistica. Mojo è infatti un'allusione, un simbolismo sessuale usato soprattutto nel blues, anche se poi da lì è stato adottato da molti altri generi e artisti (ricordate no, i Doors?).
Un album blues oriented quindi? Sì, certo. E...anche no.

Perchè in realtà il mood dell'album danza sapientemente tra il classico sound Heartbreakers e la musica del diavolo, ma lascia spazio anche ad un paio di chicce davvero sorprendenti.

L'apertura è tutta per Muddy Waters, dio l'abbia sempre in gloria: Jefferson Jericho Blues (potete ascoltarla qui), parte con un bel riff sopra ad un tappeto di armonica nel più classico canone del blues elettrico.Un pezzo caldo e avvolgente, che incombe inarrestabile come un vecchio treno a vapore.

Alla seconda traccia si cambia. First Flash of Freedom ci scaraventa in un trip da acido, con una tastiera in odore di Doors (toh, ancora loro) e un lungo assolo di chitarra, congruamente lisergico, a metà pezzo. Il brano arriva a lambire i sette minuti e ha un incedere a spirale, sembra non finire mai. Con Running man's bible si affaccia per la prima volta nel lavoro il riconoscibilissimo sound della band. Un rock midtempo con basso/chitarra/batteria che al momento giusto lasciano spazio all'hammond. Bel ritornello, la voce nasale di Petty che maramaldeggia.

Altro brano che nasce già classico è la ballatona The Trip to Pirate's Cove, siamo in pieno Heartbreakes sound, dalle parti di Into the great wide open (la canzone), per capirsi.

Proprio quando pensiamo di avere in pugno la cifra stilistica del lavoro, ecco che arriva la sorpresa.Si tratta di I should have know it, un incredibile hard rock che sembra una outtake di Physical Graffiti dei Led Zeppelin. Una metamorfosi imprevedibile e trascinante che conduce fuori dal percorso artistico fin lì tracciato ma che riesce comunque ad amalgamarsi con tutto il resto.

L'afoso blues rurale di U.S. 41, ci rimette in carreggiata. Così come la chitarra fluida di Takin' my time, cadenzata sull'eterna litania di Hoochie Coochie Man. Le atmosfere sixties di Let yourself go ci introducono all'altra eccezione all'umore della raccolta, Don't pull me over, è infatti un sinuoso reggae (genere indossato non solo nella musica ma anche nel testo di denuncia) che aggiunge eccellenza e classe al già notevole livello qualitativo dell'opera.

Ci sarebbero altre cose da aggiungere, brani da descrivere, la bellezza straziante delle dei due slow conclusivi (Something Good Coming e Good Enough) da decantare, ma mi ero ripromesso di evitare una pedissequa lista della spesa, e anche se non ci sono riuscito fino in fondo, perlomeno la smetto qui.

Mojo è, in breve, un disco caldo e confortante, da serata passata pigramente sul portico a chiaccherare e bere Jack Daniels liscio (questa parte esclude ovviamente il sottoscritto)insieme agli amici più cari. E' un album lungo, inciso evidentemente senza fretta ne ansia da prestazione da parte della band, creato con la consapevolezza di non avere nulla da dimostrare a nessuno. E' la migliore festa possibile per i sessanta di Petty.

Già. Tom Petty. Probabilmente l'unico dei top rockers americani che non è mai riuscito a sfondare, oltre la cerchia dei dinosauri, dalle nostre parti. Devo confessare che neanch'io sono mai stato in fissa con lui, ma l'uscita del cofanetto dal vivo (Live Anthology appunto) dell'anno scorso ha contribuito a farmi entrare in piena sintonia con the man from Gainsville, Florida, e l'ascolto di questo complesso e sfaccettato disco ha messo il fiocco sul pacco del mio entusiasmo. Adesso ci vorrebbe un suo concerto per concludere nel migliore dei modi questo lungo inseguimento.


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