Di norma, nella fase promozionale che accompagna l'uscita di un nuovo disco di qualunque artista del music buisness, la liturgia è sempre la stessa: l'album è "il migliore", "il più rock", "il più ispirato" il "più meglio" di tutti quelli che l'hanno preceduto.
Per fortuna ogni tanto ci sono delle eccezioni. Hank Williams III, durante una recente intervista ha tranquillamente dichiarato: " I honestly don’t think that (Rebel Within, n.d.r.) it tops Straight To Hell it’s got the slow ones, it’s got the fast ones, and a little attitude. But I still don’t think it tops… I still got another four years before I come close to knocking that one down(non penso davvero che Rebel Within sia superiore a Straight to hell, ha pezzi veloci, pezzi lenti e un pò di attitudine. Ma ancora non è a quel livello... Mi dò ancora quattro anni per cercare di avvicinarmi a quel disco).
Ovviamente sono d'accordo, Straight to hell resta un picco creativo inarrivabile, un masterpiece che ha fatto scuola, ma questo non impedisce a Rebel within di essere un gran bel lavoro, che ha nel sostanziale recupero di un sound maggiomente classico e bluegrass oriented (con qualche significativa eccezione) il suo maggiore punto di forza.
La terza opera in tre anni di Hank arriva quasi in sordina e senza clamori. Contiene diversi brani che l'artista del Tennesse da tempo proponeva in concerto, pezzi nati sul tourbus, qualche variazione al suo classico schema compositivo, un solo pezzo country-punk.
Ma andiamo per ordine. Dopo un breve arpeggio di chitarra, un intro di violino porta al cantato di Gettin drunk and fallin down, la traccia di apertura. Sound caratteristico, voce nasale che gratta come unghie sulla lavagna, tematiche classiche da drifters, grande cantabilità, insomma un incipit perfetto a questo nuovo viaggio.
La title track è piazzata in seconda posizione. Di questo pezzo mi ero innamorato all'istante già l'anno scorso a Lucerna, quando l'avevo ascoltato per la prima volta. E' una sintesi perfetta della contaminazione inventata da Williams terzo, una base country che sfocia in un ritornello ossessivo e ripetitivo nel quale subentra la voce growling di Gary Lindsey . Davvero un brano straordinario, essenziale ma identificativo dello stile di questo artista.
Con Looking for a mountain il banjo di Daniel Mason torna a prendersi la posizione di rilievo che gli compete, in un bel pezzo che si incastra nella tradizione bluegrass sia come sound che come liriche, così come fa più avanti la travolgente Moonshiner's life (che "celebra" le gesta dei produttori illegali/contrabbandieri di whiskey, figure mitologiche tra i fuorilegge del sud degli states).
Gone but not forgotten è la prima sorpresa nel sound del disco. Siamo abituati ad ascoltare tributi del giovane Hank al mito del nonno, ed è quindi naturale stupirsi di fronte ad un lentaccio in stile southern, che ricorda molto le cose del papà Williams jr, noto appunto per aver inciso anche alcuni album di rock sudista. Personalmente trovo questo brano debole e prevedibile, il più delle volte arrivo a metà e poi lo skippo. Cosa rappresenti, uno sfizio levato o l'inizio di una nuova strada stilistica, davvero non saprei dirlo.
Si torna in carreggiata con Drinkin' ain't hard to do ("an honky-tonk bar is where i'd rather beee") e dopo la già citata Moonshiner's life arriva #5, la classica murder ballads cantata low, in stile Johnny Cash. Intensa e drammatica, si trascina per oltre cinque minuti.
Kharmageddon è l'altra deviazione dalla carreggiata principale di Hank e della band, stavolta però la prova è superata appieno. Siamo ancora dalle parti della ballata acustica, ma stavolta assistiamo a qualcosa che ricorda il folk inglese dei sessanta, tanto che ci si aspetta da un momento all'altro che spunti un flauto traverso (che ci starebbe da dio). Poco apprezzato dai die hard fans, a me il pezzo piace parecchio.
Il trittico finale è esaltante. Un crescendo travolgente di emozioni, ritmo e bad attitude. Lost in Oklahoma è forse il pezzo country migliore del lotto, non preme sull'acceleratore, se la prende comoda, ma lo stesso entra sottopelle e raggiunge in fretta le corde più emotive del redneck che è in me.
Tore up and loud è l'addio carico di rancore alla sua etichetta discografica, la Curb Records, che l'aveva meso sotto contratto nel lontano 1996 e che in seguito gli aveva messo più volte il bastone tra le ruote, arrivando provocargli un'infinità di problemi per la pubblicazione di Straight to hell (primo disco country a dover esporre l'etichetta di avvertimento per i testi espliciti). Non a caso questa traccia è l'unica del lotto che vira in maniera decisa sul country-metal, con tanto di sfanculamento urlato nel finale "After 14 years, I’m finally motherfucking free!".
Per fortuna ogni tanto ci sono delle eccezioni. Hank Williams III, durante una recente intervista ha tranquillamente dichiarato: " I honestly don’t think that (Rebel Within, n.d.r.) it tops Straight To Hell it’s got the slow ones, it’s got the fast ones, and a little attitude. But I still don’t think it tops… I still got another four years before I come close to knocking that one down(non penso davvero che Rebel Within sia superiore a Straight to hell, ha pezzi veloci, pezzi lenti e un pò di attitudine. Ma ancora non è a quel livello... Mi dò ancora quattro anni per cercare di avvicinarmi a quel disco).
Ovviamente sono d'accordo, Straight to hell resta un picco creativo inarrivabile, un masterpiece che ha fatto scuola, ma questo non impedisce a Rebel within di essere un gran bel lavoro, che ha nel sostanziale recupero di un sound maggiomente classico e bluegrass oriented (con qualche significativa eccezione) il suo maggiore punto di forza.
La terza opera in tre anni di Hank arriva quasi in sordina e senza clamori. Contiene diversi brani che l'artista del Tennesse da tempo proponeva in concerto, pezzi nati sul tourbus, qualche variazione al suo classico schema compositivo, un solo pezzo country-punk.
Ma andiamo per ordine. Dopo un breve arpeggio di chitarra, un intro di violino porta al cantato di Gettin drunk and fallin down, la traccia di apertura. Sound caratteristico, voce nasale che gratta come unghie sulla lavagna, tematiche classiche da drifters, grande cantabilità, insomma un incipit perfetto a questo nuovo viaggio.
La title track è piazzata in seconda posizione. Di questo pezzo mi ero innamorato all'istante già l'anno scorso a Lucerna, quando l'avevo ascoltato per la prima volta. E' una sintesi perfetta della contaminazione inventata da Williams terzo, una base country che sfocia in un ritornello ossessivo e ripetitivo nel quale subentra la voce growling di Gary Lindsey . Davvero un brano straordinario, essenziale ma identificativo dello stile di questo artista.
Con Looking for a mountain il banjo di Daniel Mason torna a prendersi la posizione di rilievo che gli compete, in un bel pezzo che si incastra nella tradizione bluegrass sia come sound che come liriche, così come fa più avanti la travolgente Moonshiner's life (che "celebra" le gesta dei produttori illegali/contrabbandieri di whiskey, figure mitologiche tra i fuorilegge del sud degli states).
Gone but not forgotten è la prima sorpresa nel sound del disco. Siamo abituati ad ascoltare tributi del giovane Hank al mito del nonno, ed è quindi naturale stupirsi di fronte ad un lentaccio in stile southern, che ricorda molto le cose del papà Williams jr, noto appunto per aver inciso anche alcuni album di rock sudista. Personalmente trovo questo brano debole e prevedibile, il più delle volte arrivo a metà e poi lo skippo. Cosa rappresenti, uno sfizio levato o l'inizio di una nuova strada stilistica, davvero non saprei dirlo.
Si torna in carreggiata con Drinkin' ain't hard to do ("an honky-tonk bar is where i'd rather beee") e dopo la già citata Moonshiner's life arriva #5, la classica murder ballads cantata low, in stile Johnny Cash. Intensa e drammatica, si trascina per oltre cinque minuti.
Kharmageddon è l'altra deviazione dalla carreggiata principale di Hank e della band, stavolta però la prova è superata appieno. Siamo ancora dalle parti della ballata acustica, ma stavolta assistiamo a qualcosa che ricorda il folk inglese dei sessanta, tanto che ci si aspetta da un momento all'altro che spunti un flauto traverso (che ci starebbe da dio). Poco apprezzato dai die hard fans, a me il pezzo piace parecchio.
Il trittico finale è esaltante. Un crescendo travolgente di emozioni, ritmo e bad attitude. Lost in Oklahoma è forse il pezzo country migliore del lotto, non preme sull'acceleratore, se la prende comoda, ma lo stesso entra sottopelle e raggiunge in fretta le corde più emotive del redneck che è in me.
Tore up and loud è l'addio carico di rancore alla sua etichetta discografica, la Curb Records, che l'aveva meso sotto contratto nel lontano 1996 e che in seguito gli aveva messo più volte il bastone tra le ruote, arrivando provocargli un'infinità di problemi per la pubblicazione di Straight to hell (primo disco country a dover esporre l'etichetta di avvertimento per i testi espliciti). Non a caso questa traccia è l'unica del lotto che vira in maniera decisa sul country-metal, con tanto di sfanculamento urlato nel finale "After 14 years, I’m finally motherfucking free!".
Chiude il lavoro un altro pezzo che è un classico dei concerti, Drinkin' over mama. E qui mi è venuto da pensare al brano Mama, di Holly Williams, la sorellastra (padre in comune) di Hank, che ha celebrato con dolcezza il ricordo della mamma, recentemente persa. Anche il nostro qui canta di una madre che se ne va, lasciando soli e disperati padre e figli. La fuga però è motivata dalla discesa agli inferi della donna, che a sessantun anni comincia a bere pesante e a fumare crack. Il pezzo è (finalmente) un country indemoniato e senza freni inibitori ne rispetto per l'istituzione famigliare, un fondamento della retorica ipocrita sulla quale è fondata la tradizione americana.
In conclusione mi sento di dire che ho tirato un bel sospiro di sollievo. Succede che gli album fatti per chiudere i contratti discografici siano delle ciofeche tirate un pò via, ed era lecito, visto il pessimo rapporto che legava Hank ai tipi della Curb, che una cosa del genere accadesse anche per Rebel Within.
Per fortuna o per rispetto dei fans, questo non è successo. Il quinto disco country di Williams III è un buon lavoro. Un eleven-tracks coeso, compatto ed incisivo, con meno voli pindarici rispetto a Damn right, ma più radicato nella cultura classica del country, con una qualità media costante più che soddisfacente.
Adesso la curiosità è tutta nel vedere che strade artistiche sceglierà il nostro, visto che non ha più vincoli contrattuali che lo legano ad un percorso preciso. Non mi aspetto (e non vorrei) grosse rivoluzioni, ma non si può mai dire l'effetto che può fare l'aria fresca della libertà su certi brutti ceffi.
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