mercoledì 3 marzo 2010

Talk to me

Poco prima degli scontri in via Padova a Milano, scaturiti da una violenta rissa tra cittadini sudamericani e africani e purtroppo culminata con un omicidio, volevo scrivere un post su come il sindacato contribuisse, così come ha fatto nel dopoguerra insieme a qualche grande partito per l'emigrazione dal sud, all'integrazione tra persone e culture differenti.

In un clima di odio, paura e diffidenza continua, indotto dalla Lega e dai suoi degni compari, nel paese reale molti italiani lavorano nelle cooperative merci, nelle fabbriche e nei campi fianco a fianco a lavoratori migranti. Non senza difficoltà ovviamente, questi operai sono in qualche modo costretti dagli eventi a convivere con situazioni e mondi molto lontani dai loro. Per dire, molto spesso alla fine di una giornata di lavoro queste persone non vanno a casa, perchè non ne hanno una, ma in un centro di ricovero e accoglienza pubblico se non addirittura in strada, per poi presentarsi puntualmente il giorno dopo sul posto di lavoro.

Ebbene, nella mia categoria sindacale ho la fortuna di avere dirigenti che hanno avuto l'intelligenza di capire che il futuro del sindacato in Italia passa necessariamente anche per il contributo dei lavoratori stranieri, e che per questo vanno fatti partecipare alla vita politica dell'organizzazione, investiti di responsabilità. Al nostro congresso sedevano in platea in percentuale inedita per gli standard normali, lavoratori cinesi, sudamericani,africani .

L'episodio di integrazione che volevo riportare è piuttosto breve. E' il contributo di un lavoratore del Senegal attraverso un intervento al microfono. Si parlava dei fatti di Rosarno, e questa persona, poco avvezza alle luci della ribalta e più a suo agio con il francese che con l'italiano, ha fatto un intervento così naturale, orgoglioso, lucido e commovente sui diritti di milioni di persone quotidianamente capestati, da far venire rabbia e lucciconi un pò a tutti.

Alla fine del suo discorso e anche più tardi, nella pausa pranzo, una moltitudine di delegati gli si è avvicinata per una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Molti di loro facevano parte di comunità straniere di norma "ostili" a quella africana, e la cosa, seppur circoscritta ad un contesto di comune condivisione ad una stessa associazione, mi ha reso orgoglioso di essere lì in quel momento.

Ho pensato che allora c'è davvero, seppur senza banalizzare la questione e non senza enormi difficoltà, il mezzo per uscire dall'ipocrita duopolio rifiuto/sfruttamento delle persone che arrivano in Italia dai paesi più poveri.
E il mezzo, sembra ingenuo o utopistico, si chiama ancora dialogo.
Difficile, mi rendo conto, che lo capisca chi, proprio praticando il suo esatto contrario ne trae vantaggi elettorali.
E complicato che lo usi anche chi per storia e ruolo lo faceva, e oggi realizza che è più proficuo parlare d'altro.

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