"Per la maggior parte delle persone che mi ascoltano, sto dicendo cazzate
Ma se arrivi a vedere chi muove i fili dietro le scene, beh cazzo, ti viene da vomitare"
The Grand Ole Opry (Ain't so grand anymore)
Il Grand Ole Opry è una vera istituzione nell’ambito della country music americana. Iniziato come una trasmissione radio nel 1925, oltre ad essere diventato nel frattempo il più longevo programma esistente (è tuttora trasmesso), si è trasformato nel tempo in una sorta di Academy Awards della musica Country ed è anche diventato un passaggio obbligato per chi suona questo genere. Organizza show, detta le playlist alle radio, fa e disfa. E’ ovvio che tutti facciano educatamente la fila per farne parte.
Hank Williams terzo no. Anzi. Lui apre Damn right rebel proud con una canzone che si intitola proprio The Grand ole opry (ain’t so grand anymore) e gliene vomita di tutti i colori, ricordando a tutti che chi gestisce questa organizzazione è un baciapile con le chiappe strette, che non voleva più Cash dopo la prigione, che era nervoso davanti al sorriso beffardo di Waylon Jennings e che, soprattutto, non celebra il nonno Hank Williams sr, re-inserendolo nella hall of fame del GOO ( a questo proposito è in atto da tempo una petizione on-line )
Mancano, rispetto al magnifico Straight to hell, anthem hardcore country come la title track o Dick in dixie, ma in compenso si tornano ad apprezzare melodia e voce, e in un paio di episodi (Candidate for suicide e Stoned and alone) il fantasma di nonno Williams è così vicino che si potrebbe toccare.
Meno immediato del precedente, Damn right rebel proud cresce col tempo, personalmente me la sono presa comoda per recensirlo, anche per la difficoltà di reperire i testi, letteralmente introvabili in rete.
L’open track è seguita da due pezzi, Wild & free e Me and my friends, che sono la quintessenza del way of life di Hank e della sua cricca, il sound è rilassato e il messaggio arriva forte e chiaro
(“ Each damn day that we’re living we’re damn right rebel proud”)
Hank Williams terzo no. Anzi. Lui apre Damn right rebel proud con una canzone che si intitola proprio The Grand ole opry (ain’t so grand anymore) e gliene vomita di tutti i colori, ricordando a tutti che chi gestisce questa organizzazione è un baciapile con le chiappe strette, che non voleva più Cash dopo la prigione, che era nervoso davanti al sorriso beffardo di Waylon Jennings e che, soprattutto, non celebra il nonno Hank Williams sr, re-inserendolo nella hall of fame del GOO ( a questo proposito è in atto da tempo una petizione on-line )
Mancano, rispetto al magnifico Straight to hell, anthem hardcore country come la title track o Dick in dixie, ma in compenso si tornano ad apprezzare melodia e voce, e in un paio di episodi (Candidate for suicide e Stoned and alone) il fantasma di nonno Williams è così vicino che si potrebbe toccare.
Meno immediato del precedente, Damn right rebel proud cresce col tempo, personalmente me la sono presa comoda per recensirlo, anche per la difficoltà di reperire i testi, letteralmente introvabili in rete.
L’open track è seguita da due pezzi, Wild & free e Me and my friends, che sono la quintessenza del way of life di Hank e della sua cricca, il sound è rilassato e il messaggio arriva forte e chiaro
(“ Each damn day that we’re living we’re damn right rebel proud”)
Con la traccia quattro si fa casino. Six packs of beer riprende finalmente lo stile country punk che è diventato ormai il marchio di fabbrica di questo Hank , i testi ovviamente sono l’ideale colonna sonora di un party selvaggio (Well I pay my dues /And I paid my rent / They still tryin to take everything they can (...) Even through i’m broke i got six packs of beer).
Il primo lento (I wish i knew) scivola via bene, così come il seguente If you can’t help youself, ma è con Candidate for suicide che il disco torna a toccare una vetta assoluta. Il titolo dice tutto, Hank canta con voce dolente, quasi remissiva. Un testo che va oltre l’autocelebrazione orgogliosa di uno stile di vita, e riflette sui lati più oscuri di un’esistenza costantemente border line.
Long hauls & close calls, la traccia nove, è spettrale. Mi sembra una canzone da omicidio, sarebbe perfetta per le serate in casa Firefly (la famiglia di serial killer inventata da Rob Zombie nei suoi La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo). Il brano estremizza ancora di più il concetto della vita senza regole e senza costrizioni, spingendo ancora più a fondo il pedale dell'acceleratore. Il testo è molto breve, per il coro del ritornello è forse appropriato coniare il termine death-country ( Coz' I've been drunk for 30 days / and I dont care if I die / And I'm druggin' hard and fast, and thats the way I spend my time / And I dont need someone tryin' to tell me how to live my /Own no good life My own HellBilly ride ).
Stoned and alone è uno strepitoso lento con tanto di slide guitar che dilata il tempo e lo spazio, creando un’atmosfera “stonata”, in linea con titolo e tema del pezzo. Composta probabilmente pensando alla I’m so lonesome i could cry del nonno.
La track 11, P.F.F. (Punch Fight Fuck), quasi dieci minuti di durata, è divisa in due parti: veloce ed acustica, ed è anche il pezzo più controverso dell’album. Il brano è dedicato alla memoria di Jesus Chris “gg” Allin, furioso e pazzoide hardcore singer degli ottanta, un infanzia agghiacciante con un padre psicopatico che faceva vivere la sua famiglia in una baracca isolata senza luce ne elettricità, “gg” si esibiva in show nei quali regolarmente provocava pesantemente il pubblico, lo aggrediva con l’asta del microfono, si provocava ferite (arrivando a spezzarsi i denti), veniva massacrato di botte, arrivava a defecare sul palco e a lanciare escrementi e/o a cospargersene. Beveva e si drogava senza soste. Si fece diversi periodi di carcere. Morì (ovviamente ) presto. Il party selvaggio che volle per il suo funerale si trova ancora su you tube. Hank gli rende omaggio con una traccia dal testo che più esplicito non si può, che probabilmente scatenerà una bolgia tra i suoi fans ogni qual volta verrà suonata.
3 shades of black è un omaggio allo stile di Johnny Cash (come del resto era stato Lousiana stripes nel predente Straight to hell). La canzone ha l’andatura tipica del compianto Man in black, anche se il testo del ritornello Johnny probabilmente non l’avrebbe mai potuto cantare (We all like metal and whiskey…). Altro highlight dell’album.
Il disco si chiude con un pezzo anomalo rispetto ai temi preferiti di Hank. Workin man è cantata insieme all’amico Bob Wayne ed è una classica bar country song che descrive la vita della working class americana, in particolare di un fiero operaio edile. Un po’ scontata, ma con qualche passaggio interessante: “ i've been working for the man since a tender age / now a rich politician wants to lower my wage / pour me a drink so i can understand / these are the struggles of a working man “
In ultima analisi, Damn right rebel proud rappresenta senza dubbio un’altra prova convincente per il nipote del leggendario Hank Williams, forse un mezzo punto inferiore al precedente Straight to hell, ma del resto era quasi impossibile fare meglio di quel lavoro. Hank ha capito che la velocità da sola non basta e allora è riuscito a controllarla, ad equilibrare più coerentemente i suoi aspetti e a produrre un disco meno selvaggio, ma più maturo. Hank Williams terzo prosegue dritto per la sua strada, incurante delle comuni regole di vita e di quelle del mercato discografico.
I suoi fans rispondono presente, mentre più di un discografico, giù a Nashville,TN, continua a masticare amaro.
Hiiiiii ahhhh!
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