venerdì 5 gennaio 2007

Music biz




Facevo una riflessione sul music business.
C’è grossa crisi del mercato, è il dato indiscusso. Le major piangono e licenziano, molti appassionati festeggiano e riempiono gli hard disc di musica a scrocco. Certo, nei tempi di vacche grasse, quando cioè per andare primi in Italia dovevi vendere più di un milione di copie,invece delle 20mila sufficienti oggi, anche a me giravano le palle a dover pagare duemila lire (su un prezzo medio di dodici-quattordicimila) in più un disco perché le strategie di marketing della label avevano previsto qualche secondo di marchetta televisiva, che veniva scaricata sull’acquirente, informato da un adesivo sull’ellepì (pubblicità TV!), però so per esperienza che quando un settore è in crisi non sono certo i posti di lavoro dei manager che saltano, ma quelli dei lavoratori comuni (i dirigenti passano agevolmente .dall’industria farmaceutica a quella del tabacco attraverso magari la produzione di giocattoli o la direzione delle autostrade).
Perciò non è che me la sento troppo di esultare se non si vendono più dischi e le compagnie discografiche annaspano tra chiusure e fusioni.

Poi c’è l’aspetto legato alla passione per la musica; a me continua a piacere possedere l’oggetto disco, rigirarmelo tra le mani, leggere il booklet, i testi, e pazienza se con il ciddì questo piacere è notevolmente ridimensionato rispetto ai 33 giri, o se attraverso la rete si può comunque reperire testi e notes del disco. E non sono nemmeno così ipocrita da affermare che questa mia passione dinosaurica mi impedisce di avvalermi del p2p. Ma nei limiti del possibile, preferisco l’acquisto, tutto qui.

Questa digressione è solo la premessa per la riflessione di cui all’inizio di questo post.
La musica è in crisi si diceva. No, dico io.
La vendita dei cd è in crisi. Perché le persone, giovani e non, continuano ad usufruire, pagando, del prodotto musica.


Prendiamo qualsiasi aspetto legato al rock che non sia il supporto (una volta si diceva) fonografico: i concerti vanno alla grande, stanno diventando la voce primaria nel bilancio di molti artisti, e questo nonostante l’incremento inarrestabile dei prezzi (difficile pagare un ticket meno di 32 euro, il diritto di prevendita arriva fino a 10-12 euro a biglietto, e per le grandi star che riempiono gli stadi – madonna,stones, springsteen,e company - il range va da 50 a oltre 100 euro); i divudì musicali sono anche loro in espansione, nonostante anche per questo prodotto ci sia la possibilità del download illegale. E non è uno sfizio economico, nonostante ci sia ormai una vasta scelta di titoli a basso costo infatti, i prodotti meno frequenti sugli scaffali continuano ad avere prezzi medio-alti (alcuni esempi sulla musica che piace a me: steve earle live in austin,TX quasi 30 euro; the pogues live at Town and Country. 25 euro; springsteen video anthology quasi 40 euro) e comunque ad avere mercato.

Un altro indizio? Date un occhiata in edicola. Quante riviste musicali vedete? Rockerilla, Rumore, Buscadero, Mucchio, Tribe, Rock Hard, Metal Shock, Metal Hammer, Blow up, Musica e Dischi, Rolling Stones e XL, solo per il rock, e forse la lista è sbagliata per difetto. E’ aumentata la carta stampata che parla di pop rispetto a quando i dischi si vendevano in quantità industriali e nonostante il web. Non è un paradosso? Non si vendono più i dischi e aumentano i giornali che parlano dei dischi. Perché? Una risposta potrebbe essere data dal fatto che con il pc e una connessione flat (20 euro al mese) io posso, in tempo reale, leggere una recensione e scaricarmi il disco; però le inormazioni sulle uscite discografiche si trovano anche in rete, e comunque il valore che mi piace dare a questo aspetto è che il sacro fuoco per il dio del rock è ben lungi dall’essere spento, anche nelle giovani leve.

L’aspetto a mio avviso più raccapricciante di questo nuovo consumo della musica è poi quello legato alla telefonia; cellulari che squillano sulle note di Shakira, oppure “la musica che risponde”( invece che il segnale di libero di senti una bella canzone della Pausini).
Anche qui il volume d’affari mi dicono essere esorbitante e in tale incremento da avere superato in alcuni paesi le vendite dei dischi.

E il download legale?
Lentamente sta prendendo piede, soprattutto nei paesi in cui i media hanno dato grande rilievo ai pirati informatici arrestati (arrestati, sì) o pesantemente multati per downloading illegale. E così per stare tranquillo paghi novantanove cents a canzone e con qualcosa in meno del prezzo del negozio reale (ma non è sempre così) ti sei portato a casa il ciddì del tuo artista preferito o ti sei composto la tua playlist dei sogni.

I negozi di dischi non legati ai megastore dei grandi marchi globalizzati, alla fine sono quelli a cui è andata peggio. Ho letto da qualche parte che ormai ci sono meno di trecento punti vendita indipendenti superstiti in tutta Italia. Immagino siano rimasti quelli alimentati dalla passione vera e fuori tempo del proprietario, e che siano diventati dei veri e propri santuari dove dare sfogo alla propria libidine compulsiva repressa. Quello della mia città, un bel posto con in vetrina musica di qualità, ha chiuso due-tre anni fa per fare posto ad una camiceria.

Last but not least.
Non è per esterofilia che lo scrivo, ma quanto viene considerate la musica in Italia? Poco e niente. Pensate alla cultura musicale anglosassone (cazzo nel regno Unito e in Iranda qualunque ragazzo suona uno strumento o fa parte di una band) o francese. A parte la storica disputa dell’IVA al 20% rispetto al 4% dei libri, in Francia la musica (anche leggera) è trattata a tuti gli effetti da arte, da cultura, da tessuto storico e sociale. Da noi no. Tantè che i nostri governanti stanno pensando di recuperare ulteriormente soldi dalla SIAE (che secondo voi, a sua volta, come si rifarà?).

Per concludere ho l’impressione che sia solo cambiato, per gli squali dell’industria, il modo di fare soldi con la musica, ma che il business sia ancora vivo e ben remunerativo. Anche la disponibilità a spendere degli appassionati è immutata secondo me, si è solo diversificata. Scarico gli Artic Monkeys da e-mule, però poi magari pago 3 euro la suoneria di Zucchero o l’ultimo video dei Black Eyed Peas per il mio telefonino UMTS. Ma l’obolo continuo a versarlo come faceva mio papà nel 1975, e anche le tasche in cui finisce sono virtualmente le stesse.


It’s evolution, babe.

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